2025 Il vero spirito italiano
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Il vero Spirito Italiano
Fiamme Verdi Dicembre 2025 di Gen. B. (ris) Antonino Inturri
Vi è capitato, almeno una volta nella vita, di dover fare ordine nel vostro garage o in cantina o, ancora, in uno scantinato dove, negli anni, si è accumulata una quantità inquietante - e della quale non riuscite a capacitarvi - di mirabilia tale da poter tranquillamente allestire davanti casa una personalissima Porta Portese o un più elegante Portobello?
Se la risposta fosse affermativa di certo fareste la felicità di trovarobe e cultori di modernariato alla ricerca del pezzo unico o del design a buon mercato.
Durante una di queste attività di bonifica, tra il mobile della nonna e uno scatolone stracolmo di vecchi peluche è spuntata la confezione di un liquore, impolverata e con l’immagine di un Carabiniere in alta uniforme, con feluca e pennacchio, dal nome evocativo: “Galliano, specialità della Ditta Arturo Vaccari di Livorno”.
Leggo l’etichetta, individuo il luogo di produzione, identifico la ditta, ma non è il Carabiniere che mi incuriosisce bensì è quel “Galliano” che mi intriga, che richiama un tempo e un luogo remoti, un fatto d’arme, una reminiscenza di storia, di soldati, di ferro e sangue. E se così fosse, perché “Galliano”?
E chi era Arturo Vaccari?
Arturo Vaccari fu, in verità, uno dei livornesi più famosi negli anni a cavallo tra l`’800 e il `900 dei due secoli scorsi. La sua distilleria era situata in via Marco Mastacchi e vantava la produzione di tre liquori che avevano ricevuto premi e riconoscimenti internazionali (tra cui la Medaglia d’oro al prestigiosissimo concorso della Esposizione Universale di Parigi del 1900) a sottolinearne qualità e originalità.
Il suo intento nella quasi maniacale preparazione dei suoi elisir era quello di ottenere un distillato che rappresentasse, che incarnasse “il vero Spirito italiano”. La sua continua ricerca della perfezione, con un processo di distillazione condotto allora come ancora oggi presso la distilleria Maraschi & Quirici di Chieri (Torino), lo portò finalmente a ottenere “un distillato del tutto inedito, a base di oltre 30 erbe alpine ed esotiche e dal colore dorato intenso, un autentico e squisito assalto dei sensi, delizioso e complesso, con un aroma incredibilmente innovativo”.

Arturo Vaccari


Cap. Giuseppe Galliano

Battaglia del Coatit - 1895
Era il 1896.
Proprio in quell’anno, la ricerca del perfetto elisir del Cav. Vaccari si intersecò con la Storia.
L’Italia aveva formalmente iniziato la sua avventura coloniale con l’occupazione dell’Eritrea diventata ufficialmente colonia italiana nel 1890 per poi espandersi verso l’Etiopia, causando
prevedibili contrasti con il Negus Menelik sfociati nella guerra di Abissinia e nella sconfitta delle truppe italiane nella battaglia dell’Amba Alagi (7 dicembre 1895). Le unità superstiti, al comando del generale Giuseppe Arimondi, ripiegarono quindi su Macallè, capoluogo della regione dei Tigrè, dove venne insediata una guarnigione presso Forte Enda Yesus (Chiesa del Gesù) composta da tre compagnie del 3° Regio Corpo Truppe Coloniali d’Eritrea, una compagnia dell’8° battaglione e una sezione di quattro pezzi di artiglieria da montagna per un totale di circa 1200 uomini ad affrontare circa 30000 abissini.
Al comando della guarnigione fu posto il maggiore Giuseppe Galliano.
Nato a Vicoforte, vicino Cuneo, nel 1846 fu giovanissimo veterano della Terza Guerra d'Indipendenza e dal 1873 al 1883 inquadrato nel neocostituito Corpo degli Alpini per poi transitare dal 1890 nel Regio Corpo Truppe Coloniali.
Domenico Quirico in Squadrone Bianco, saggio dedicato alla storia delle truppe coloniali italiane, e ancora nel suo libro Adua, ricorda Galliano come membro del "fiore di una generazione di ufficiali coloniali che tiene in pugno magnificamente le proprie truppe" dopo averle "forgiate, allenate, provate in battaglia".
A dire il vero, aveva fama di essere alquanto pignolo e rompiscatole, capace di “ispezionare le camerate tre volte per notte o di far saltare una licenza per un bottone fuori posto”, ma affidava il suo ascendente a varie qualità: "la gentilezza, la bonomia, non priva di guizzi di sarcasmo a volte feroce".
L’ufficiale, nel grado di capitano, fu insignito di Medaglia d’Oro al V.M. all’indomani della battaglia di Agordat (21 dicembre 1893) durante la quale, al comando di un battaglione indigeni e di una batteria di artiglieria da montagna indigeni composta da sudanesi, aveva condotto, dopo un primo ripiegamento, un risolutivo contrattacco contro i Dervisci, scompaginandone le fila e recuperando armi, munizioni, pezzi e insegne tuttora conservate presso il Museo di Artiglieria di Torino. Per alcuni storiografi, il Galliano (promosso per quell’evento al grado di maggiore) è considerato il primo alpino decorato del massimo riconoscimento al valore militare.
Ma torniamo a Macallè dove i superstiti dell’Amba Alagi si erano ritirati prima di proseguire per Adigrat al fine di riorganizzarsi e dove avevamo lasciato il maggiore Galliano e i suoi 1200 uomini.
Questi cerco di organizzare al meglio la difesa del forte ma, di fronte alle soverchianti forze etiopi, dopo aver resistito per oltre due mesi ai continui attacchi, fu costretto ad abbandonare il presidio su ordine del governo italiano. Era il 21 gennaio 1896 e il maggiore Galliano lasciò il forte (poi rinominato “Forte Galliano” in suo onore) con gli onori militari. Come ad Agordat, anche a Macallè il Galliano aveva dato prova di intraprendenza, spirito di iniziativa, capacità di mantenere la disciplina e l'ordine nonché di motivare e infondere fiducia ai propri subordinati.
Per i fatti di Macallè, il magg. Galliano fu insignito della Medaglia d’Argento al V.M., la seconda. In precedenza, gli era stata concessa la medesima onorificenza per il comportamento tenuto durante la battaglia del Coatit (13 gennaio 1895) nella regione di Tigrè in Eritrea.
L’immediata conseguenza degli insuccessi dell’Amba Alagi e di Macallè fu l’invio di nuovi rinforzi nell’inverno 1895-96. Tra questi, fu inserito un nuovo battaglione alpini, il “1° battaglione Alpini d’Africa”, articolato su quattro compagnie provenienti dal 5°, dal 6° e dal 7° per un totale di circa 1000 uomini. Per portarli al battesimo del fuoco venne scelto il comandante più amato dalla truppa, il tenente colonnello Davide Menini del 6° reggimento. Da capitano, comandante la 35ª compagnia del 10° battaglione composta da cadorini, nell’agosto del 1882, aveva guidato con successo, durante le manovre in Carnia, una marcia di 200 chilometri per omaggiare la regina Margherita in visita proprio in Cadore, a Perarolo (partenza fissata alle 14 per essere a Perarolo alle 10 del giorno successivo e rientro!).
Ma Adua era dietro l’angolo.
Il 28 febbraio alle ore 21, le tre colonne italiane del generale Barattieri, 17.500 uomini di cui due terzi italiani e un terzo indigeni, avanzarono verso il campo abissino di Adua dove li attendevano circa 100.000 uomini dell’imperatore Menelik.
L’intenzione era quella di schierarsi su posizioni molto forti e provocare Menelik ad attaccare in condizioni sfavorevoli. Ma le colonne italiane muovevano su un terreno pressoché sconosciuto, si disunirono, persero i contatti durante la marcia notturna e si offrirono separate all’attacco manovrato dei 100.000 abissini.
Il 1° marzo 1896, il dramma si consumò tragicamente.
La resistenza fu disperata, il crollo completo, la ritirata disastrosa: circa 5000 italiani e 1000 ascari caddero sul campo.
Le cinque compagnie di ascari del maggiore Galliano facevano parte, assieme al battaglione alpini di Menini, della Riserva al comando del generale Ellena. Tre di queste erano con lui ad Agordat e lo avrebbero seguito in capo al mondo.
La resistenza ci fu e aspra.
Anche Galliano impugnò fucile e con il volto ridotto a una maschera di sangue per una pallottola che gli aveva fracassato la mascella diede l’ultimo ordine a quanti, ufficiali e ascari, gli erano rimasti accanto: “Signori, si dispongano con la loro gente e vediamo di finir bene”, una frase che racchiude in sé tutte le caratteristiche e lo spirito del personaggio.
Spostatosi verso una roccia per tamponare la ferita al volto fu sorpreso e riconosciuto dai nemici quale il difensore di Macallè e, trascinato verso le loro linee, lo uccisero selvaggiamente.
Caddero anche i quattro i comandanti di compagnia, su 23 ufficiali 10 furono uccisi e sopravvissero solo 300 soldati.
Il maggiore Giuseppe Galliano fu insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria, divenendo il primo ufficiale ad essere decorato per due volte della massima onorificenza.
È a tutto questo che in quel 1896, anno della morte del suo eroe preferito, il Cav. Arturo Vaccari si ispirò nella sua personale ricerca del “vero Spirito Italiano” da associare alla sua raffinata e unica creazione: carattere forte e al tempo stesso amabile; unico e nel contempo risultato della sapiente integrazione di diversi ingredienti; stile asciutto, ma imponente.
Il Vaccari si preoccupò di garantire che ogni dettaglio del suo “Galliano” fosse simbolo di grandezza e la bottiglia non fa eccezione. La forma alta e slanciata, con molti lati piatti conici è stata ispirata dalle colonne degli antichi templi romani e richiama la potenza e la gloria dell’impero.
Oggi la “Premiata Distilleria Arturo Vaccari” non esiste più e il marchio è stato acquisito dalla Bols di Amsterdam, ma il “Liquore Galliano” viene ancora prodotto come nel 1896 nella già citata distilleria Maraschi & Quirici di Chieri attraverso sette infusioni e sei distillazioni delle 30 diverse erbe e spezie, tra cui anice, liquirizia e vaniglia e utilizzato in quattro cocktail classificati IBA (International Bartenders Association).
E, più che in Patria, rimane uno dei più conosciuti brand del made in Italy a livello internazionale.
Un po’ come gli eroi di Adua: soldati, alpini, ascari, oggi quasi dimenticati, ma, al contrario, indelebili esempi di ciò che fu e di ciò che è il “Vero Spirito Italiano”.

Battaglia di Adua
* Per chi volesse gustare il “Galliano” in una delle sue migliori versioni, si rimanda a: