GIORGIO VISENTIN


L’alpino socio Giorgio Visentin di Godega continua a raccogliere riconoscimenti ai concorsi letterari cui partecipa. L’ultimo gli arriva da Treviso ed è il terzo posto al premio nazionale “Parole attorno al fuoco”, giunto alla seconda edizione, organizzato dalla locale sezione Ana e dal Gruppo di Arcade. Visentin è stato premiato per l’elaborato intitolato “Il cappello di Antenore” con la seguente motivazione:Convincente il coinvolgimento emotivo del bambino nel ri-vissuto del protagonista ed efficacemente sottolineato nelle reiterate intervallazioni “e io ero là - e io non ero là con Antenore”, accurata scelta dei contenuti e la precisione dei dettagli. Fluida e suadente la forma linguistica, arricchita e resa più persuasiva dai misurati e opportunamente collocati inserti dialettali

IL CAPPELLO DI ANTENORE

E’ come un colpo inaspettato e secco allo stomaco, di quelli che lasciano senza fiato e senza scampo. Mi ritrovo improvvisamente scaraventato indietro nel tempo a rivivere fatti così reconditi da non rammentarne ormai quasi più l’esistenza.
Avrò avuto, allora, nove dieci anni. Era una stupenda giornata d’autunno e, dopo il gioioso fervore delle vendemmie, sulla campagna aleggiava un’atmosfera quieta e sonnolenta.
- Ciao Bertino, come t’è andata oggi a scuola? -
Il vecchio Anteriore mi accompagnava così quando, rincasando, lo trovavo seduto sui gradini di casa sua intento ad arrotolarsi l’ennesima sigaretta di "trinciato forte". Orso e un po’ tocco, viveva solo, evitato dagli adulti mentre a noi bambini, per farci stare buoni, veniva tenebrosamente evocato come “lupo mannaro”. Ma io, nonostante quella nomea e gli ammonimenti della mamma, non avevo paura di Anteriore. A seconda delle stagioni, le sue mani s’aprivano spesso per donarmi qualcosa: «Tò Bertino ‘na branca de Barese... varda che bei perseghi... bagnete la boca co sto rapet de ua... » e poi ancora pomi e peri e fighi e nosele.
La sua grande casa, che sorgeva solitaria al limitare d’una vigna, aveva conosciuto tempi migliori. Ne facevano fede due pilastroni, avvolti dai glicini, che ne delimitavano l’accesso dalla strada sterrata.
«Bene!» ricordo d’aver risposto quel giorno. «Sai, oggi la maestra ci ha insegnato “Sul cappello”: stiamo facendo le prove per il IV Novembre» e per confermarlo intonai la prima strofa. L’unico occhio buono di Antenore mandò un brillio così insolito che quasi perdevo il filo.
«Continua,» mi incoraggiò «non fermarti!» e intanto ritmava tempo con uno zoccolo. E rideva Anteriore, rideva felice come una pasqua noncurante di mettere in mostra le gengive devastate su cui troneggiava quel suo dentone che tanto intimoriva i miei compagni.
Quando conclusi, con fare fiero ed impettito, esclamai deciso: «Anch’io da grande voglio fare l’alpino!» «Ah, bravo bravo... allora vieni dietro, voglio mostrarti una cosa.»
Incuriosito, posai la cartella al pilastro e seguii la sua scia di tabacco.
Mi condusse nella “ritonda” e dal retro d’un quadretto della, Madonna di Castelmonte sfilò una foto sgualcita. Ne tolse l’opaco velo di polvere strofinandosela sulla manica della camicia e me la porse.
Ritraeva un alpino giovane e sorridente, con una mano teneva per le briglie un mulo maestoso e con l’altra accennava ad un saluto, sfocato e mosso però a causa del movimento troppo brusco per l’obiettivo.
«Questo sei tu?» intuii, manifestando forse troppo apertamente il mio stupore poiché egli annuì con un lieve cenno del capo, quasi vergognoso.
«Se eri un alpino, dov’è allora il tuo cappello? Non te l’ho mai visto!» continuai con la tipica curiosità, a volte involontariamente impertinente, dei bambini.
«L’ho perso... - farfugliò - l’ho perso in battaglia quando ... » «E perché non te ne sei procurato un altro?» incalzai. «Beh, sai... per gli alpini il cappello è qualcosa di sacro, unico, insostituibile come... come ... » «Come il Tricolore?» lo soccorsi nella ricerca del paragone. «Proprio proprio», fece «si vede che sei un bambino intelligente.»
Ormai ero come un pesce ammaliato dall’esca. «Dai Anteriore dimmi, racconta.»
Una pausa. Capii che stava rivoltando le pieghe del suo passato alla ricerca di eventi inghiottiti dal tempo, ma che ora scalpitavano impazienti per uscirne: aspettavano solo il momento buono e io l’avevo innescato.
Alzò lo sguardo e lo puntò lontano lontano. Ed e gli si ritrovò ancora là.

E IO ERO LA’ CON ANTENORE. PRESENTE
Dopo la resa della Grecia, il nostro reggimento decimato sul Tomori, fu trasferito nei pressi di Tirana in attesa del sospirato rimpatrio.
Finalmente assaporavamo attimi di pace e si passava il tempo a rileggere per la centesima volta la lettera giunta da casa o a fare progetti per il futuro mangiandosi con gli occhi la foto della “morosa”. Ma all’imbrunire, quando attorno al fuoco cantavamo sommessamente «Sul ponte di Perati», la voce s’incrinava al ricordo dei tanti amici, troppi, che erano rimasti lassù.
Arrivò il sospirato ordine: «Affardellare lo zaino. Prepararsi in colonna. Salmerie in coda».
Tutte le nostre voci s’unirono in un urlo liberatorio. Finalmente a casa! Altro che casa: 350 km a piedi verso nord e ci trovammo in Jugoslavia.
«Che ci facciamo qui?»chiedevamo smarriti.
«Combattere i ribelli slavi.» Imprecazioni sacramenti bestemmie.
Ancora guerra. Ancora morti. A chi sarebbe toccato stavolta? Sono sommerso da un lacerante senso d’angoscia, quasi premonitore.
E se toccasse a me, chi penserebbe al miei vecchi nel momento del bisogno?
Chi li aiuterebbe a mietere il frumento, a sarchiare il granoturco, a falciare l’erba, a potare le viti e vendemmiare?

E IO ERO LA' COSTERNATO
Piantiamo le tende in una radura soleggiata al limitare d’una fitta macchia di faggi che dominava il corso tortuoso d’un fiumiciattolo, in quei giorni rapido e spumeggiante per le abbondanti piogge primaverili.
In lontananza un bianco abitato su cui vigilava un esile minareto.
«Attrezzi alla mano!» Con fitto volteggiare di picconi e vanghette alziamo un terrapieno difensivo tutt’attorno al campo e ci sentiamo più sicuri.
Inoltrandoci in quei luoghi dalla bellezza selvaggia, infatti, avevamo il netto sentore della vicinanza fisica del nemico come se ci seguisse, spiasse, studiasse il momento propizio per sorprenderci ed annientarci.
Scaccio i cattivi presagi, prendo dallo zaino la biancheria sporca e scendo al torrente. L’invito dell’acqua fresca e chiacchierina è irresistibile e così vi immergo i piedi, gonfi e arrossati per l’estenuante trasferimento.
Me ne sto lì a godermi quel sollievo fumandomi una bella "milit"

E IO ERO LA’ CON ANTENORE. BEATO
quando uno schizzo d’acqua gelida mi sferza il viso.
«Ehi,» inveisco «no sta romper le ... » ma appena scorgo chi è stato la stizza si tramuta in sorriso. E’ Mario, un compaesano che fin dalla Campagna di Francia divide con me la tenda e la pagnotta.
- Ma dai ‘Ntenore, no sta far la toseta Dio bono! - sbotta.
Mi si siede accanto e gli passo una sigaretta. Ogni tanto, nelle anse del torrente dove l’increspatura della corrente era più calma e trasparente, c’era un lampo argenteo a fior d’acqua: il riflesso del dorso d’una trota che subito riaffondava con un guizzo repentino di pinne.
«’Ntenore,» mi fa Mario «te ricordetu che nogade che se fea sul Meschio? E quela volta che avon pescà col carburo? E quando che se ‘ndea, sconti tra le cane, a vardar le gambe de le femene che le lavea sul lavador? E quel dì che ... »
Quanti ricordi. Come potevo dimenticare quel giorni spensierati, la mia casa, il paese, il fiume... me li sognavo tutte le notti e il cuore lacrimava.

E IO ERO LA’. MALINCONICO
Con il morale sotto i tacchi, raccolgo le mie robe e risalgo il pendio. L’erba fiorita emana fragranze intense. Trovo un posto appartato. Con in bocca lo stelo d’una margherita, mi godo il sole appoggiato ad un muretto a secco e intanto osservo le evoluzioni di due bianche farfalle che si rincorrono da una corolla all’altra. Da una fessura s’affaccia timidamente una lucertola e, dopo due guizzi sospettosi della testolina, se ne resta anch’essa a gustarsi quel tepore. La nostalgia mi prende. Socchiudo gli occhi e mi ritrovo a casa, al Pian de le Cesure, un ampio pascolo alle falde del Pizzoc contornato da un muretto come questo, risultato del lavoro di intere generazioni costrette, per sopravvivere, a rubare alla montagna ogni singola zolla. Proprio da quel costone, un bel mattino, forando gli umori appena velati della pianura, scorsi con emozione ciò che andavo cercando da sempre: sospesa come un miraggio sull’orizzonte, la macchia diafana e rosata di Venezia!

E IO ERO LA’ CON ANTENORE. INCANTATO
«Tu Antenore» - era il sergente - «farai il terzo turno di guardia stanotte.»
L’attesa è snervante, il dormiveglia agitato e pieno di incubi.
Un colpetto alla spalla mi scuote: tocca a me. Ora mi trovo solo, avvolto dalle tenebre. Nella notte, il sonno del bosco è attraversato da mille fruscii e sussulto ad ogni intreccio d’ombra, ad ogni goccia di rugiada che schiocca sul terreno, ad ogni serenata di grilli bruscamente interrotta, ad ogni frullo d’ala. Tendo spasmodicamente l’orecchio cercando, tra tutti i frastagliati respiri della natura, di isolarne il "loro" prima che sia troppo tardi. Mi vengono in mente le voci raccolte sulla bellicosità degli slavi e sulle atrocità che fanno a chi ha la sventura di cadere vivo nelle loro mani. Un brivido mi corre giù per la schiena facendomi accapponare la pelle.
«Ave Maria... ti prego, fa che non tocchi a me. Ave Maria ... »

E IO ERO LA’ CON ANTENORE. SFIBRATO
Il tempo, scandito dal pulsare affannato del cuore, sembra non passare mai. Comincia a schiarire. Sopra i crinali si vedono nubi rosate che il vento, come per noi il destino, raggrumava o sfilacciava a seconda dei suoi imperscrutabili capricci. Uno spizzico di luna s’affaccia sopra le chiome degli alberi proprio nel momento in cui colgo un movimento, furtivo e raggelante, alle mie spalle.
«Alt! Alt!» grido in preda al panico. «Tasi mona!» sibila il sergente.
Mai offesa fu più gradita. Spossato, me ne torno in tenda.
«Sta attento a dove te mete i piè» protesta qualcuno.
La testa mi martella e non riesco a prender sonno. Fuori, a salutare l’alba, è esploso un assordante concerto d’uccelli d’ogni specie. Questo è il merlo, questa la lodola, questo il cardell... Il silenzio cala come una mannaia. L’attacco è improvviso e devastante. Colpi d’artiglieria e raffiche rabbiose di parabellum squassano il campo. L’aria è solcata dalle traccianti e si respira l’acre odore della paura.
«Gesùgiuseppemaria qua i ne copa tuti!»La confusione è totale. Tra gli scoppi s’odono grida richiami gemiti. Dopo il primo sbandamento, i nostri mortai con bordate precise alzano un argine invalicabile di fuoco e l’infiltrazione nemica viene dapprima smorzata, poi bloccata e infine respinta. E il momento del contrattacco. «Alpini avanti! Savoia!»
Saltiamo urlando il terrapieno sparando a bruciapelo contro ombre che si tuffano al riparo degli alberi. Improvvisamente una vampata accecante e assordante ci avvolge in un turbinio di schegge e sassi. Quando il polverone si posa, la visione è agghiacciante. Alcuni corpi giacciono al suolo, scomposti e fumanti. Il sergente sta supino con le braccia aperte, come un Cristo in croce, colpito in fronte. Poco discosto uno slavo, piegato sul fianco, dà flebili segni di vita. Con una mano stringe ancora l’arma, con l’altra si comprime il ventre slabbrato da cui scivola un che di informe e viscido. E la prima volta che vedo il temuto nemico così da vicino e mi stupisco che non abbia le parvenze di un mostro. E un uomo, anzi un ragazzo, che scosso da spasmi lancinanti comincia ad emettere un rantolo disperato che mi buca i timpani e mi trafigge il cuore.
«Maaa.... aaa Ma...maaa Maaaa... «Ci guardiamo negli occhi, stravolti. «Mariavergine», fa uno «al ciama so mama come noialtri.»
Allora Borlotto, uno scontroso boscaiolo cadorino così forte da portarsi a spasso un mulo sulle spalle, avanza carponi fino al moribondo e comincia a carezzargli il capo, dolcemente amorevolmente maternamente.
«Maaa... maaa» «Son qua» e se ne sta allo scoperto, incurante del pericolo.
«Maaa... maaa» «Son qua, bocia» e piange quel colosso, piange come un bimbo.

E IO ERO LA’ CON ANTENORE. COMMOSSO
La battaglia è finita, nella valle ristagna un cupo silenzio di morte. Abbiamo perso altri 14 amici, ma non c’è tempo per piangere né per pregare.
Disposti a raggiera risaliamo in perlustrazione il greto del torrente. Dietro un cespuglio noto qualcosa: è un berretto di panno scuro con una vistosa stella rossa. Un corvo s’alza in volo lanciando un gracchiare spaventato... naufragai nel silenzio e nel nulla.
Mi risvegliai dopo tre giorni all’ospedale da campo. Seppi poi che cademmo in un’imboscata e io fui il primo ad essere colpito, qui sopra l’occhio, vedi la cicatrice? Privo di sensi caddi in acqua e se non era per Mario che mi afferrava per la collottola chissà dove sarei finito.
Il cappello, il cappello però...
«Roberto. Roberto dove sei? è mezz’ora che ti cerco da tutte le parti!»
«Porca miseria, mia mamma. E com’è incavolata!» esclamai preoccupato.
Passando per la strada, ella aveva visto la mia cartella appoggiata al pilastro ed ora si stagliava sull’uscio con intenzioni fin troppo evidenti. «Fila a casa, con te farò i conti dopo!» Non me lo feci ripetere due volte e sfrecciai fuori come un razzo con la foto ancora in mano, in quel momento avevo altri pensieri che restituirla. «La me scuse siora Giovanna, l’è tuta colpa mia, stavo ... » intervenne Antenore in mia difesa. Mia madre non gli diede il tempo di continuare.
«E tu, vecchio ubriacone rimbambito», lo aggredì «non permetterti più di parlare con... (ciò non le impedì, mentre le passavo accanto, di rifilarmi un tal manrovescio da lasciarmi il segno delle cinque dita per una settimana)... con Roberto. Non voglio che tu gli riempia la testa con storie da osteria, capito?!»
Correndo, mi girai per un attimo. Impressa mi rimane l’immagine di Antenore: curvo, a capo chino, i lineamenti scabri scolpiti nell’umiliazione.

E IO NON ERO LA’ CON ANTENORE.
Quanti anni sono passati da quel giorno? Quasi quaranta e ora mi ritrovo nuovamente in mano questa foto ingiallita, sbucata fuori chissà come nel riordinare le cianfrusaglie accatastate in soffitta.
Cosa è rimasto di te, vecchio Antenore?
Non discendenti diretti; non la vecchia casa né i pilastri abbattuti per lasciar posto ad una superstrada; non il pascolo al Pian de le Cesure sepolto dal rovi e nemmeno i suoi muretti antichi, testimoni silenziosi di miserie e fatiche, ormai crollati sotto l’avanzare del benessere.
Niente, solo un disadorno loculo nell’angolo più nascosto del cimitero.
Il questo il premio per l’occhio orbo, per il cervello bevuto, per gli affetti negati, per gli anni migliori strappati via assieme al tuo cappello?
Povero Antenore, sputato come un osso di ciliegia fuori dai vincoli sociali; defraudato di ogni dignità civile della nostra indifferenza; vigliaccamente colpito alla schiena da un nemico annidato in casa, più infido dello slavo, solo perché si doveva cancellare dalla memoria quella infausta guerra di regime dall’epilogo tragico e per giunta fratricida.
Povero Antenore, sacrificato (e quanti come lui?) sull’altare di nuovi Del, spietati e crudeli, che non conoscono né Patria, né Bandiera, né Ideale, né Onore, né Riconoscenza, né Pietà.

E IO NON ERO LA’ CON ANTENORE.
La coscienza m’inchioda gravato da dolorosi ricordi-rimorsi. Troppo tardi! Troppo tardi per rimediare, ma non per cercare, almeno, di rivalutare il calvario di un’intera generazione di Italiani chiamati a pagare un conto durissimo alla Storia per la nostra emancipazione democratica. Guardo la foto. Mi saluta Antenore con quel suo gesto rapido e sfocato.
«Ciao Bertino ... » mi par d’udirne ancora la voce arrochita dal fumo.
«Ciao Vecio, spero che lassù, nel Paradiso di Cantore, tu l’abbia ritrovato il tuo cappello, ora. PER SEMPRE.».

Giorgio Visentin

PAROLE INTORNO AL FUOCO