VIGILIA DI NATALE IN RUSSIA


Febbraio 1970

Con la 277° compagnia del Val Cismon

Ampelio Rossi - combattente in Africa Orientale con il Battaglione «Feltre», e poi con il «Val Cismon» in Grecia e in Russia, attuale attivissimo Segretario del Gruppo alpino di Pieve di Soligo - ha scritto per Fiamme Verdi questa rievocazione delle vicende vissute sul fronte russo nei giorni che hanno preceduto il Natale del 1942
A dire il vero, il buon Ampelio aveva semplificato assai la sua descrizione soprattutto per quanto riguarda il suo valoroso apporto - modestamente «mimetizzandosi», nel racconto, tra i personaggi della sua squadra - per cui abbiamo giustamente chiarito alcune notizie che lo riguardavano e che pur appaiono incomplete rispetto a quanto più ampiamente descrive la motivazione della medaglia di argento al valore militare che è stata meritatamente conferita a questo valoroso graduato alpino.
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La nostra gita di Ferragosto del 1942 si svolse da Aidussina all’Ucraina.
In precedenza avevamo fruito di un soggiorno in Albania e Grecia, con visite alla Vojussa, ai crinali del Trebescines, al Monte Groppa, alla zona del Golico, e infine a Janina e nell’Epiro; a ricordo - il nostro Val Cismon se ne era tornato con una medaglia d’argento attestante che eravamo stati tutti bravi.
Tra i molti trasferimenti c’era stato anche il passaggio del Val Cismon dal 7° al 9° Alpini, ed ora era la volta del trasloco in Russia.
La meta avrebbe dovuto essere il Caucaso ma quando - verso la fine di agosto - giungemmo nella zona di Jsium, arrivò l’ordine di trasferirci fra Rossosch e Podgornoje e di schierarci sulla riva destra del Don.
Io facevo parte della 277° compagnia che, con i reparti del Val Cismon, fu inizialmente di seconda schiera con gli altri battaglioni del 9° Reggimento. Dai primi di novembre fino a oltre metà di dicembre siamo passati in prima linea con tutta la Julia (tra la Tridentina situata a nord e la Cuneense a sud), e cioè insieme ai battaglioni Vicenza, Gemona e Cividale; alle spalle avevamo i gruppi di artiglieria alpina Udine, Val Piave e Conegliano e, di rincalzo, i battaglioni L’Aquila e Tolmezzo.
Gli sfavorevoli eventi di Kalitwa determinarono il nostro spostamento con tutto il resto della Julia. L’ordine giunse il 18 dicembre e ci apprestammo quindi a lasciare il nostro posto sul Don, la sponda che lavorando alacremente avevamo trasformato in una città sotterranea, con i rifugi per dormire a castelli, con camminamenti tutti coperti, postazioni di mitragliatrici riparate a prova di bombe di mortaio, magazzini per le armi e le munizioni, posti avanzati spinti verso il fiume e con le sentinelle sempre in osservazione della riva opposta; non mancavano neppure le stufe con i camini ben mascherati per non far scorgere il fumo al nemico.
Le sentinelle avevano il cambio ogni due ore o anche meno a seconda dell’intensità del freddo che superava frequentemente i 30 gradi; i comandanti di squadra seguivano assiduamente lo svolgersi del servizio, tenendo un po’ di compagnia alle sentinelle.
I russi riuscirono ad arrivare una sola volta alle postazioni tenute dal nostro battaglione, e l’alpino di sentinella in quel punto se la sbrigò da solo a colpi di bombe a mano; la pattuglia avversaria venne respinta rimettendoci un ufficiale il cui cadavere venne poi visto dai nostri comandanti giunti al mattino a rendersi conto dell’accaduto; il resto della pattuglia si era dileguato seguendo la traccia dei fogli bianchi che aveva prima disseminato lungo il percorso sul greto del Don per non incappare nella zona minata.
Purtroppo cadde in analoga nostra azione anche un ufficiale alpino che, alla testa di un gruppo di arditi, aveva attraversato il Don giungendo all’eliminazione di alcune sentinelle russe.
La posizione che la nostra 277° compagnia occupava sulla sponda del Don era più elevata rispetto a quella tenuta dai russi; in quel punto il fiume era stretto e non molto profondo, e le feritoie delle nostre mitragliatrici distavano non più di duecento metri da quelle avversarie. Nelle giornate di buona visibilità la calma del fronte riusciva monotona, e con la mitraglia - e più spesso col vecchio ‘91 - cercavamo di infilare le posizioni nemiche: la risposta ci giungeva sempre immediata, e le pallottole arrivavano sopra e sotto la postazione sibilando rabbiosamente attorno a noi.
Con l’andare del tempo la nostra sorveglianza accertò il graduale maggior movimento dell’avversano; ad occhio nudo o con l’ausilio del cannocchiale si poteva notare un frequente andirivieni nei camminamenti dell’avversario e nelle sue immediate retrovie occultate dagli alberi.
Anche la propaganda sovietica si era fatta più intensa; a mezzo degli altoparlanti ci chiedevano di arrenderci e, nelle giornate serene, piccoli apparecchi sorvolavano le nostre linee lanciando manifestini come questo che trascrivo:
 

LASCIAPASSARE
SOLDATO ITALIANO, TU SEI ALLA VIGILIA DELLA MORTE. OGGI O DOMANI SARAI UCCISO ANCHE TU, TUA MADRE TUO PADRE PIANGERANNO LA TUA MORTE PREMATURA, TUA MOGLIE SARA’ VEDOVA ED INFELICE PER TUTTA LA VITA.
I TUOI BAMBINI SARANNO ORFANI E CONDANNATI ALLA FAME E ALLA MISERIA.
E TU SARAI DESTINATO A MORIRE IN TERRA STRANIERA E MARCIRE COME GIA’ MARCISCONO I TUOI COMPAGNI UCCISI.
SOLDATO ITALIANO, PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI DECIDITI, RIFIUTA DI ANDARE ALL’ATTACCO, LASCIA ANDARE I TEDESCHI E TU SCAPPA NELLE RETROVIE, NASCONDENDOTI NEI BURRONI. NEI BOSCHI, FRA LA NOSTRA POPOLAZIONE CHE
TI AIUTERA’, PERCHE’ SA CHE GLI ITALIANI SI BATTONO PER FORZA SOTTO GLI ORDINI DEI TEDESCHI, OPPURE DATTI PRIGIONIERO SENZA PERDERE NEANCHE UN MINUTO.
RICORDATI CHE ANDARE ALL’ATTACCO VUOL DIRE PER TE ANDARE ALLA MORTE.
DANDOTI PRIGIONIERO Al RUSSI SALVERAI LA TUA VITA.
ECCO DEI VOSTRI CONNAZIONALI SONO CONTENTI PERCHE' PASSERANNO L’INVERNO AL CALDO E RIVEDRANNO IL SOLE D’ITALIA DOPO LA GUERRA.
OGNI SOLDATO ITALIANO HA IL DIRITTO CON QUESTO LASCIAPASSARE DI ATTRAVERSARE IL FRONTE E DARSI PRIGONIERO AI RUSSI; OGNI COMBATTENTE DELL’ESERCITO RUSSO E OGNI CITTADINO SOVIETICO DEVE ACCOMPAGNARLO AL
PIU’ VICINO COMANDO DELL’ESERCITO RUSSO.
IL COMANDO RUSSO GARANTISCE AL PRIGIONIERO LA VITA, UN BUON TRATTAMENTO E IL RITORNO IN PATRIA DOPO LA GUERRA.
Le prospettive erano tutt’altro che confortanti, ma i  lasciapassare» restarono inutilizzati anche alla 277° del Val Cismon; nel contempo  radio-scarpa» aveva fatto intuire l’anzidetto ordine di trasferimento che, come prima accennato, ci giunse il 18 dicembre. Il battaglione L’Aquila ci aveva preceduti usufruendo di mezzi di trasporto che valsero solo ad anticipare il sacrificio dei baldi alpini abruzzesi.
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Noi preparammo gli zaini e smontammo le armi, col cuore affranto per dover lasciare quei posti avanzati che con tanta fatica e con la continua vigilanza avevamo resi imprendibili; con marce forzate e con gli altri reparti del Val Cismon lasciammo la zona di Builowka diretti a Dereswka di Selenji Yar, destinati ad appoggiare il gruppo d’intervento del ten. col. Actis Caporale (che era stato comandante del nostro battaglione fino a tre mesi prima, quando gli succedette il capitano Stanislao Valenti), oltre che del battaglione L’Aquila. 183° compagnia comando divisionale e una batteria del gruppo Udine, che da giorni stavano combattendo con ammirevole slancio e notevoli sacrifici.
Eravamo partiti all’imbrunire e, squadra per squadra, anche la 277° si avviò attraverso i camminamenti scoperti in precedenza usati per i servizi di corvée; durante la notte passammo presso un bivacco di soldati della Divisione Vicenza - destinati a darci il cambio sul Don - e incontrai Pietro Mattiuzzo della mia classe di leva e che salutai per l’ultima volta in quanto non fece più ritorno.
La nostra marcia sul ghiaccio, che durava dalle ore 18, ci portò a Paolowska dove giungemmo dopo la mezzanotte; ripartimmo alle ore 21 del successivo giorno 19 e dopo aver camminato tutta la notte (o perchè si sbagliò strada o per averci fatto fare un’inversione) arrivammo in una località alle ore 7 - dove potei trovare uno slittino sul quale caricai lo zaino - per ripartire alle ore 19 ed arrivare infine alle ore 7 del 21 dicembre - a Zelomezenka: un paese piuttosto grande dove potemmo trovare pane e patate. Speravamo di rimanervi almeno fino a Natale, ma ecco il contrordine e, dopo un solo rancio, partimmo alle ore 22 marciando fino alle sei del mattino; sosta fino a mezzogiorno e avanti ancora fino alle ore 18 del giorno 22 quando si arrivò a Scilinxaer dove, trascorsa un’oretta all’aria fresca, venimmo alloggiati dai tedeschi nelle isbe del paese.
Il 23 dicembre abbiamo finalmente potuto riposare dalle pesanti marce sostenute e riscaldarci un po’ dopo le lunghe giornate trascorse col freddo feroce; i tedeschi ci passarono un po’ di pane e di caffé, alloggiandoci in un grande capannone. Mi stesi sulla paglia, vicino ai miei ufficiali che stavano parlando della situazione; il tenente Irmo Sanguinetti raccomandava agli amici che, in caso di morte, mandassero alla sua mamma la macchina fotografica; anche il comandante del mio plotone - il s. ten. Fausto Gamba sebbene serenamente e quasi scherzando, faceva discorsi analoghi e per lui quelle ultime parole rappresentarono effettivamente il finale testamento.
Con queste malinconiche considerazioni arrivò la sera con la speranza di trascorrere tranquilla anche quella notte, ma ci eravamo appena buttati sulla paglia che arrivò l’ordine di raggiungere immediatamente gli altri reparti del battaglione che erano già più avanzati della 277.
Ci incamminammo nella notte gelida e sulla strada lastricata di ghiaccio; il «caldo» era più avanti e sopra di noi, rappresentato dalle fiammeggianti scie delle katiusce, dal continuo rombo dei cannoni e dall’ormai vicino boato delle deflagrazioni.
Arrivati a ridosso della linea, ci misero sotto il tetto di un pagliaio attorno al quale si trovavano armi, sci e numerosi morti allineati e semisepolti dalla neve; è lì che incontrai Gastone Castellani - mio ufficiale durante la campagna di Grecia e che, da appassionato sciatore, era passato al battaglione Monte Cervino diretto in posizione più arretrata per un po’ di riposo con i suoi alpini dopo i combattimenti sostenuti; lo rividi poi in Italia dopo la terribile avventura.
La squadra dell’intrepido cap. magg. Andrea Marciano venne subito inviata a collegamento con la 264° e la 265° compagnia, e vi arrivò giusto in tempo per trovarsi immersa nel combattimento; il resto della 277° venne impegnato a costruire un rifugio da adibire a cucina per tutto il battaglione. Il nostro lavoro continuò per l’intera notte e non avevamo ancora terminato quando giunse l’alba del 24 dicembre: la vigilia di Natale.
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La 264° del capitano Bertolotti era inserita – a quota 205,6, da Deresowka a Selenji Yar - tra il battaglione L’Aquila e la fanteria tedesca; poco più indietro - a quota 166 tra L’Aquila e la 264° - si trovava la 265° compagnia agli ordini del ten. Foghini; poi il comando tattico del magg. Boschis - al quadrivio di Selenji -- con la nostra compagnia di rincalzo comandata dal ten. Monteneri.
Dalla posizione della nostra compagnia udivamo il rabbioso urlo delle mitragliatrici e quello non meno aggressivo dei russi slanciati all’attacco di quota 166 contro le posizioni della 265° che non era ancora attestata per una efficace difesa a causa dell’intenso tiro di mortai e di armi automatiche; pur lamentando notevoli perdite la 265° riuscì a bloccare, a colpi di bombe a mano e in frequenti corpo a corpo, questo primo attacco che costò centinaia di morti all’avversario.
Le truppe mongole si ritirarono e, verso le ore sette avanzarono ancora più numerose malgrado i tiri dei nostri mortai e dell’artiglieria tedesca, facilitati dalla mimetizzazione tra i campi di girasole; venivano avanti in masse impressionanti, con mortai e mitraglie montati su slittini e che tempestavano le nostre linee, cui si aggiungevano i tiri delle artiglierie e delle katiusce dell’immediata retrovia. Anche dalla linea della 264° e della 265° il fuoco si era fatto intenso producendo larghi vuoti nell’avversario avanzante; alcune nostre postazioni vennero perdute e gravi perdite si stavano verificando tra i valorosi difensori.
Fu quindi la volta della nostra 277° compagnia: buttammo i picconi e badili coi quali stavamo costruendo il rifugio e, prese le nostre armi e lo zainetto delle bombe a mano, ci lanciammo nella direzione indicataci dal capitano Valenti. Credevamo di raggiungere gli amici della 264° e 265° e ci trovammo invece in un tratto di linea scoperto dal quale i russi stavano avanzando; eravamo a quota 205,6 di Selenji Yar.
Ci ponemmo in posizione di combattimento in attesa dell’ordine di sparare, anche perchè c’era il dubbio che vi fossero dei reparti russi indossanti nostre divise; il dubbio venne sciolto dalle prime raffiche che, già arrivati a una trentina di metri, ci indirizzarono attraverso gli sterpi. La nostra immediata reazione li fermò, ma il loro volume di fuoco - sia per numero che per mezzi - era notevolmente superiore al nostro: avevano le mitragliatrici pesanti montate su slittini e potevano quindi venire spostate con facilità, e ogni soldato era armato con efficienti parabellum a 72 colpi. I nostri mitragliatori Breda erano invece facile preda del gelo; quello in dotazione alla mia squadra aveva sempre fatto il suo dovere e molte speranze erano quindi affidate al suo buon funzionamento anche in questa circostanza assai critica.
Il bravo porta-arma Antonio Doro - che ebbi con me anche nella campagna di Grecia - sparava inginocchiato quando una raffica di parabellum gli giunse attraverso il petto; lo ritroverò all’ospedale di Karchov, ricoverato con sette o otto buchi nel torace. Intanto io raccolsi il mitragliatore, cambiai il caricatore impedito dalla neve immettendone uno nuovo, e cominciai a sparare sui russi.
Una pallottola mi colpì alla coscia; una mitragliatrice, posta su una collinetta alla mia sinistra, aveva diretto il suo tiro contro di me.
Iniziai a ritirarmi strisciando faticosamente sulla neve, ma il gelo che filtrava sulla ferita attraverso lo squarcio dei pantaloni mi andava come anestetizzando contro il dolore che si fece più sopportabile. Iniziai perciò a fare ritorno all’arma cui era nel frattempo accorso il sergente Silvio Piazza, ma anche questi - fulmineamente colpito in modo grave - dovette lasciare l’impugnatura ed iniziare il difficile rientro; venne colpito anche il porta-munizioni Giuseppe Giacomin, da Nervesa della Battaglia, che morì poco dopo al posto di medicazione.
Mi buttai nuovamente sull’arma e ripresi a sparare; volsi lo sguardo all’indietro e vidi il sergente Piazza che, riuscito ad alzarsi, veniva ancora colpito; anche il valoroso sottotenente Gamba - che in mezzo a noi, in piedi, ci incitava alla lotta - crollò a terra ferito.
Con sempre rinnovate truppe fresche i russi continuavano a farsi avanti e la situazione si rendeva ancora più difficile; attorno a noi non c’erano che morti e feriti, e i pochi fucili rimasti in azione erano ormai insufficienti. Sopra le nostre teste, come un infernale fuoco di artificio, passavano sibilando le molteplici volate delle katiusce che, fortunatamente per noi, avevano quale obiettivo le batterie tedesche che erano sistemate sulla destra dei pagliai, nei pressi del posto di medicazione.
Ci ritirammo di alcuni metri, ed ecco che sulla destra iniziò ad agire un’arma che la nostra pesante era riuscita a piazzare; giunse anche un nostro ufficiale, che era stato a farsi medicare un braccio ferito, e ci incitava all’attacco.
I nostri superiori ci avevano ripetutamente raccomandato di non mollare, e di non lasciare i nostri morti e i feriti allo scempio dei cingoli dei carri armati russi. Ci buttammo all’attacco e i russi dovettero cedere iniziando a ripiegare, arrivarono pure tre piccoli carri armati tedeschi uno dei quali rimase colpito quasi subito incendiandosi come uno zolfanello.
Unitamente alla 265° compagnia continuammo ad avanzare fino alle vicinanze di Deresowka, raggiungendo spesso i russi che in molti casi - ed irreparabilmente per loro - non riuscivano a seguire la veloce ritirata delle altre truppe che veniva coperta dal nutrito tiro dei loro mortai.
Della mia squadra erano rimasti i soli porta-munizioni Sanvido e Gheller; avanzando, raggiungemmo una valletta ove catturammo un ufficiale russo ferito e altri soldati mongoli. Erano brutti per davvero, ma bene equipaggiati: con i famosi valenchi - di feltro senza giunture, che preservavano ottimamente dai congelamenti - una divisa chiara che facilitava la mimetizzazione, un berretto di pelo in testa, e infine un sacchetto di tela ove conservavano il tabacco (unica cosa non buona in dotazione), mentre le armi le avevano buttate via in tempo.
Ci giunse vicino un colpo di mortaio e una scheggia colpì Marco Sanvido sotto un ginocchio: il sangue cominciò a zampillare ma la ferita poté venire rimediata; un altro colpo riservò una piccola scheggia per me e che si conficcò sotto il ginocchio destro: caddi ma mi rialzai presto, constatando che dalla ferita fuoriusciva poco sangue.
Mandai indietro Sanvido - che era ferito più seriamente - incaricandolo di scortare i prigionieri; io proseguii con gli altri, agevolati dall’intervento di carri armati tedeschi sui quali erano saliti allo scoperto molti alpini - tra cui Toigo, Ziliotto e Marciano - per poter meglio orientare il tiro delle proprie armi. I russi si ritirarono precipitosamente ma dalle loro linee venne aperto un infernale fuoco di sbarramento, mentre con mortai e pezzi anticarro cercavano di colpire i nostri carri dai quali ci allontanammo anche perché, conseguito l’obiettivo prefisso, ritornarono alle linee.
Noi rimanemmo ancora nelle posizioni raggiunte - anche per raccogliere il più possibile delle armi e munizioni abbandonate dal nemico - e poiché non era possibile apprestare una nuova linea in contropendenza, entrambe le due compagnie (la 265° e la nostra 277°) ebbero l’ordine di riportarsi all’originario e più sopraelevato punto di difesa.
Pur notevolmente inferiori a quelle dell’avversario, le nostre perdite furono sensibili e le compagnie si riordinarono il meglio possibile; col gelo salito a 32° sotto zero furono numerosi anche i congelamenti. Già morti - e col povero corpo trasfigurato in statue di ghiaccio - vidi il tenente Sanguinetti e gli alpini della mia squadra Gaetano Dalla Rosa e Alberico De Paoli.
Il terreno dei combattimenti era stato letteralmente arato dai colpi, specialmente quelli di katiuscia, e i morti - avvolti nella neve quasi dissolta dalle esplosioni - erano quasi tutti irriconoscibili; ho inutilmente tentato di identificare altri della mia squadra, ma l’orribile scena mi faceva più male delle ferite che ora, superata la frenesia della lotta, avevano ripreso a dolere acutamente.
Mi portai all’infermeria ove un tenente medico mi fasciò le parti colpite e un infermiere mi diede del cognac.
L’ospedaletto era situato presso il «Tattico», al quadrivio di Selenji Yar, ed aveva funzionato anche sotto il tiro avversario con la coraggiosa dedizione dei medici e del personale addetto. Ora, a combattimenti conclusi, il posto di medicazione era affollato di feriti e di congelati: uno spettacolo orrendo di carni straziate dalle esplosioni o annerite dai congelamenti, e alle sofferenze dei feriti si aggiungeva il visibile dolore dei medici che cercavano sveltamente di ottenere qualche rimedio in quei corpi lacerati.
Anche uno stanzone attiguo era interamente occupato da feriti già fasciati e barellati, in attesa delle ambulanze; vi ritrovai Luigi Grazian, da Bavaria e appartenente alla mia squadra, ferito ad una gamba; anche il s. ten. Fausto Gamba - con una pallottola conficcata nella colonna vertebrale - era su una barella, immobile e silenzioso, ormai prossimo alla morte; vi giaceva ferito anche il mio comandante di compagnia ten. Salvatore Monteneri.
La mia ferita alla coscia si rivelò meno grave per una fortunata circostanza; la pallottola - di tipo francese - era stata in parte deviata, e soprattutto frenata nella sua forza di penetrazione, dal taccuino di duro cuoio che portavo nella tasca posteriore. Oltre a bucarmi il taccuino incontrando lo spesso notes di caposquadra, la pallottola rovinò la fotografia di mia moglie e di mia figlia; rimasero lesionati anche un’immaginetta della Madonna e un cartoncino raffigurante S. Antonio da Padova e che era appartenuto a un mio alpino durante la campagna d’Africa.
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All’arrivo delle ambulanze venne assegnato un posto anche per me e partimmo per l’ospedale di Rossosch, ma durante il tragitto il nostro automezzo uscì di strada e dovemmo  venire trasbordati in un’altra ambulanza; giungemmo a destinazione a notte inoltrata.
Mentre attendevo disposizioni ebbi modo di esaminare le caratteristiche di una delle katiusce tedesche; era costituita da un rozzo affusto da cannone - montato su due alte ruote - e con un fascio di sei bocche da fuoco come una enorme pistola a tamburo. I proiettili, collocati in un cesto come enormi bottiglie di vino pregiato, erano alti più di un metro e con un diametro di 12-15 centimetri. La batteria tedesca era formata da quattro di questi mostri che venivano azionati con un dispositivo a venti metri di distanza: potevano quindi partire, contemporaneamente, ventiquattro proiettili che al loro arrivo creavano il finimondo.
I pochi superstiti della mia compagnia e degli altri reparti del Val Cismon erano frattanto ancora attestati sulle posizioni validamente difese la vigilia di Natale, e che solo più tardi - e a causa dell’irrompente appoggio di innumerevoli carri armati - vennero raggiunte dall’avversario.
Ai miei valorosi commilitoni, tuttora sotto il tiro delle artiglierie russe, arrivarono finalmente calzature e indumenti più adeguati, e soprattutto i necessari rinforzi costituiti dalla 118° Armi Accompagnamento, dagli elementi disponibili presso il comando, un reparto del genio e la compagnia A.A. del Battaglione sciatori Monte Cervino; il provatissimo battaglione L’Aquila, inizialmente arretrato, venne ributtato in linea dopo pochi giorni.
Infatti i russi, dopo alcune azioni d’ assaggio compiute il giorno di Natale, attaccarono - all’alba del 26 dicembre - la quota 205,6 tenuta dalla 264° compagnia del capitano Bertolotti; la lotta si fece furibonda e per contenere l’urto delle truppe mongole - che ebbero a subire perdite spaventose - accorsero la 277° compagnia e i plotoni sciatori e zappatori.
Pur con dolorose perdite anche tra gli alpini, alla fine della giornata il nemico dovette nuovamente desistere.
Vista l’impossibilità di piegare gli alpini, all’alba del 27 i russi attaccarono i reparti tedeschi sulla destra della 264° del Val Cismon, e riuscirono a passare; alcune nostre postazioni poterono così venire aggirate ma la quota venne ripresa con l’appoggio della 277° e di carri tedeschi.
La 277° sostituì la 264° sull’infuocata quota, ma il nemico aumentò l’entità dell’incessante bombardamento esteso anche alle seconde linee e alle zone di afflusso dei rifornimenti per i nostri reparti.
I feriti che giungevano all’ospedale di Karchov - al quale ero stato trasferito da Rossosch - raccontavano che i russi ritornarono nuovamente all’azione il 28 dicembre - con masse impressionanti di uomini e di carri armati - devastando totalmente le posizioni della 265° mentre gli alpini aggredivano i mezzi cingolati a colpi di bombe a mano.
L’irrefrenabile offensiva generale sovietica si ebbe però il 30 dicembre con uno svolgimento apocalittico.
Nel settore del Val Cismon il primo urto fu addosso alla 265°, poi a destra contro la 277°, infine al centro ove si trovava la 264° compagnia; accorsero i resti de L’Aquila e tutti gli uomini disponibili e persino i congelati.
Il comando del XIV Corpo d’armata corazzato tedesco - dal quale ormai dipendeva la Julia - ordinò l’arretramento della linea, ma ciò avrebbe compromesso irrimediabilmente la difensibilità di tutto il settore per cui gli alpini continuarono a lottare determinando la revoca della disposizione di ritirata.
Questa tenacia sovrumana ottenne il successo di esaurire la violenza avversaria per cui gli alpini iniziarono a loro volta l’attacco ricacciando le truppe sovietiche che dovettero abbandonare, oltre alle posizioni appena raggiunte, anche una incredibile quantità di uomini e di armi.
Il successivo giorno, 31 dicembre, si presentarono diciotto nuovissimi carri sovietici. Venne investita prima la 265° compagnia, poi la 264° e la 277°: i generali tedeschi rimasero stupefatti per l’inimitabile nuova prova di coraggio che gli alpini seppero dare. Poi intervennero dei carri armati tedeschi che ebbero la meglio sull’avversario.
L’1 gennaio vi fu un nuovo attacco contro la 265° ma ancora una volta i russi non passarono, e si convinsero che bisognava operare altrove il tanto perseguito sfondamento.
Mentre noi eravamo ancora all’ospedale di Karchov, il Val Cismon venne spostato - il 2 gennaio - verso linee più arretrate ma ugualmente battute dall’artiglieria russa; ritornò in linea il 14 gennaio a Deresowka per sostituire reparti germanici prima operanti tra i battaglioni Cividale e Vicenza, di fronte a Jwanowka. Nell’immediato pomeriggio del giorno 15, ancor prima di poter prendere idonea posizione, la 264° compagnia venne attaccata a sinistra e i suoi alpini dovettero battersi all’arma bianca e a bombe a mano; anche la 277° e la 265° vennero assalite. Il nemico venne ributtato e il Val Cismon si attestò in posizione più arretrata, allineandosi con il battaglione Cividale.
La pur sovrumana resistenza era però alla fine; già all’alba del 15 gennaio una ventina di carri armati russi era riuscita a penetrare fino a Rossosch, sede del comando del nostro Corpo d’Armata: a colpi di bombe a mano e bottiglie di benzina ne erano stati distrutti dodici e sei erano stati posti in fuga.
Cominciarono a mancare le armi e le munizioni, l’artiglieria e l’aviazione non potevano più recare appoggio ai nostri reparti. l’approvvigionamento di viveri e materiali era interrotto.
Al mattino del giorno 16 le truppe siberiane attaccarono con accresciuta veemenza ma il Val Cismon seppe fronteggiarle e contenerle, fino all’effettuazione del ripiegamento disposto dai superiori comandi per le ore 18 e derivante dagli eventi ormai disperatamente sfavorevoli su tutto il fronte.
Da Tarnowka, raggiunta il 17 gennaio, il battaglione continuò la lunga marcia attraverso Mesonki, Slavianka, Arnowka, Jvanskoje, Moik e poi Popowka dove - a seguito dell’attacco dei russi provenienti da Rossosch, già in loro mani - si formarono due direttrici di marcia tra le quali si divisero anche i superstiti del Val Cismon; una parte - col capitano Valenti, l’indimenticabile valoroso comandante che non tornò più - seguì gli alpini del Vicenza e dell’Aquila venendo uccisi o catturati a Kopanki; gli altri - guidati dal capitano Mosetti - seguirono la Tridentina e una colonna tedesca che dopo Podgornoie raggiunsero, combattendo, Karpenkowo, Koponoje, Warwarowka e infine Nikolajewka per la memorabile battaglia del 26 gennaio.
Poi, con il gelo oscillante sui 40°, ancora le contrastate tappe di Uspenka, Nowji Oskol, Troisk, Njegol e, dopo due giorni di sosta, ancora a piedi attraverso Bjelgorod, Tomarowka, Barisowka, Pisarewka, Maligrum, Sinkiev, Gradiatch, Sassulie e Romni. Finalmente l’Italia, rivista il 19 marzo 1943, e le nostre famiglie.
I pochi che poterono rivedere le famiglie poiché  a parte gli oltre trecento prigionieri che ritornarono dopo anni di travagliate vicende, sono 737 (il 42%) quelli del Val Cismon rimasti sulla steppa; quasi il 30 per cento ritornammo feriti o congelati e circa il 20 per cento, nella maggior parte dei casi pure feriti, vennero catturati.
Solo 7 alpini ogni cento partiti (e la forza del Val Cismon era complessivamente di 1.730 uomini!) tornarono a casa indenni in quella primavera del 1943.

Ampelio Rossi