Storie dei nostri veci

GIUSEPPE GATTI


5 marzo 2007

UNA FAMIGLIA IN GUERRA






Adelaide

Giuseppe Gatti da Campolongo di Conegliano, classe 1918, reduce del secondo conflitto mondiale, nel giugno 1940 all’inizio delle ostilità è, con il 7° Rgt. Alpini, schierato sul fronte occidentale. Nel novembre 1940, con il btg. "Feltre" 64^ cp. partecipa alla campagna greco-albanese.
Perde il comandante Ten. Silvano Buffa (M.O. al valor militare), caduto alla testa della compagnia proprio durante l’assalto al Mali Spadarit, azione che per l’elevato coraggio dimostrato valse a Giuseppe la Croce di guerra al valor militare. Ricorda spesso le parole purtroppo profetiche del suo tenente prima dell’assalto decisivo: «Gatti preparati perché oggi sarà la tua giornata.» Fu infatti  l’unico superstite della sua squadra, la 3^, plotone mitraglieri.
Nel giugno 1941 l’intero reggimento è trasferito nel Montenegro, dove sostiene una durissima guerriglia sino al rimpatrio avvenuto nell’agosto 1942. Due mesi dopo riparte per la Francia ed e dislocato in Provenza da cui, nel settembre 1943, inizia il rimpatrio, per assistere poi allo scioglimento del reggimento in Piemonte. Molti alpini suoi commilitoni quasi subito vengono catturati e deportati in Germania.
La storia di Giuseppe, per certi versi comune a molti altri combattenti, è però segnata dal coinvolgimento di altri fratelli in guerra: Domenico partecipa ai primi scontri sul fronte occidentale, Agostino patisce le pene ed il martirio della ritirata di Russia con la “Julia” fino al ritorno a casa, avvenuto casualmente per una strada secondaria, sporco e consumato nell’animo quasi quanto i suoi piedi sanguinanti avvolti da stracci; infine Pietro rimane prigioniero in Africa da dove torna dopo quattro anni. Anche le donne di famiglia, ed in particolare la sorella Adelaide, hanno un ruolo determinante nel lieto fine di questa storia.
Agli inizi del novembre 1943, la famiglia riceve una lettera proveniente da Peveragno (Cuneo) firmata da “Giuseppina”, la quale informa di essere rimasta senza abiti a causa dell’intenso lavoro. E’ subito chiaro che l’utilizzo al femminile del nome altro non è un linguaggio cifrato di Giuseppe per avanzare una richiesta di aiuto per tornare a casa, avendo bisogno di abiti borghesi ed essendo questa una tattica usata anche da altri militari.
Giuseppe si trovava a Peveragno da circa 1 mese assieme agli alpini Ermes Tonellato da Caerano S. Marco e Giovanni Costantin da Biadene, ospitati generosamente dalla famiglia di Giuseppe Giubergia che li aveva accolti ed aveva offerto loro protezione quasi a voler contraccambiare la speranza che anche i loro figli dispersi nella zona di Conegliano potessero essere a loro volta aiutati dalle famiglie del paese. In particolare la figlia Rita, portava ogni mattina da mangiare ai tre rifugiati e li teneva aggiornati sugli avvenimenti che animavano il paese in con particolare attenzione ai rastrellamenti operati dai tedeschi. Il loro ricovero era sotto i rami di un gelso secolare, ben nascosto tra i campi nei quali, ricambiando l’ospitalità, lavoravano e accudivano il bestiame in stalla.
Il padre, Fiorino, parte quindi alla volta di Biadene per avvisare ed accordarsi con la sorella di Ermes sull’urgente necessità di compiere il viaggio assieme ad Adelaide, la quale ricorda: «Siamo partiti io e mio papà in bicicletta portando una valigia con qualche pezzo di pane e gli abiti di ricambio per loro tre che vestivano ancora la divisa militare tinta di marrone, e poi mio papà per “mancia” è tornato indietro portando a mano la mia bicicletta. Lo sforzo è stato tale che quando è arrivato sul ponte del Piave si è dovuto fermare un’ora a riprendersi dal dolore al braccio!»
Adelaide, la sorella di Ermes più un’altra ragazza partono in treno da Montebelluna alle 7 di sera con arrivo a Padova dove attendono in sala d’aspetto per tutta la notte (a quel tempo i treni non correvano nelle ore notturne). L’indomani ripartono e arrivano la sera a Milano dove trovano una stazione a dir poco spaventosa, vetri rotti, buio e tanta paura. Fortuna vuole che durante tutto il viaggio non abbiano mai sentito suonare la sirena dei bombardamenti. Come documenti di riconoscimento Adelaide si porta al seguito la carta d’identità di Pierina (fidanzata e poi futura moglie di Giuseppe) e per lui quella del fratello Domenico. La mattina seguente il treno riparte destinazione Torino e poi Cuneo.
Ricorda Adelaide: «Al nostro arrivo a Cuneo le persone presenti in stazione ci hanno messo i brividi addosso, erano armate e dall’aspetto poco rassicurante. Quanto si è fatta l’alba siamo uscite dalla stazione ma non sapevamo da che parte andare così insieme abbiamo detto una preghiera alla Madonna affinché ci aiutasse nella decisione e poi, tranquillizzate, abbiamo imboccato la prima strada. Dopo poco cammino con molta incredulità li abbiamo trovati: erano ai bordi di un torrente che si lavavano e appena i nostri sguardi si sono incrociatici siamo rimasti tutti a bocca aperta dall’emozione.»
Il gruppetto riunito si ferma per un’ultima giornata a casa dei Giubergia dove organizzano il rientro, si cambiano e lasciano la famiglia che li ha accolti salutandosi con le lacrime agli occhi.
Il giorno seguente ripartono in treno stando ben attenti a non dare ad intendere di essere conoscenti, ognuno rimane  seduto lontano dagli altri e con totale indifferenza, cercando di nascondere la grande paura di essere individuati e presi. In stazione a Cuneo c’era un continuo passaggio di treni carichi di deportati per la Germania che lanciavano ai passanti biglietti destinati ai familiari ma che con crudeltà estrema venivano raccolti e subito buttati dalle guardie presenti. E’ questo un particolare che colpisce molto Adelaide che portando le mani al petto ricorda: «Al vedere la scena mi si stringeva il cuore e pensavo a loro e alle povere famiglie che chissà con quanta ansia attendevano notizie dei loro cari. Io lo so bene, perché quando mio fratello Agostino è passato per la stazione di Conegliano diretto in Russia io e mio papà siamo rimaste ad attenderne il passaggio diverse ore almeno per poterlo salutare.»
Arrivati a Montebelluna passano la notte a casa di Ermes ma con un ultimo tratto di viaggio da compiere.
Ricorda Giuseppe: «Siamo ripartiti per Conegliano dove siamo arrivati all’imbrunire. Appena sceso dal treno ho riconosciuto un mio ex commilitone impiegato nelle ferrovie che accortosi del mio arrivo mi prende da parte con indifferenza e mi dice di fare molta attenzione perché la zona era sotto il controllo dei tedeschi e di uscire con calma senza dare nell’occhio.» Giuseppe esce con il cuore che gli arriva in gola (essere presi sulla porta di casa sarebbe stata una vera beffa), imbocca il sottopassaggio ferroviario con alle spalle un plotone tedesco che avanza diretto in stazione e aspetta Adelaide davanti la scuola di arti e mestieri (oggi IPSIA) dove i due si ricongiungono e finalmente può toglierle il peso della valigia.
I due si incamminano verso Campolongo ma la paura ritorna alta quando si sentono osservati da due persone appostate lungo la strada. Il coraggio dell’alpino non manca e Giuseppe decide di non scappare più ma di proseguire a testa alta, quand’ecco che avvicinandosi ai due riconoscono in loro dei cari amici, i quali appena resisi conto di chi stava tornando sono corsi festeggiandoli.
Giunti sulla soglia di casa aprono la porta e trovano la famiglia riunita per cena. Silenzio, stupore, incredulità e tanta gioia li accolgono: Giuseppe dopo più di due anni dall’ultima licenza torna a casa per restarci, grazie all’aiuto di Adelaide partita coraggiosamente contro un “timido” parere contrario dei familiari, ma aiutata dalle preghiere di tutti, in particolare della nonna Teresa, che prima di partire le aveva detto: «Tu vai e stai tranquilla, che a pregare ci penso io!»
Gli anni seguenti non sono stati comunque facili, fino al 1945 Giuseppe e i suoi fratelli hanno dormito dentro una buca scavata nei campi rimanendo nascosti durante il giorno in posti impensabili.
Oggi, a distanza di molti anni, l’unico rammarico di Giuseppe è che, dopo aver servito la patria, sia dovuto ritornare a casa di nascosto come un ladro, ma in lui è salda la consapevolezza di aver assolto il proprio dovere anche se talvolta difficile e doloroso, specie per chi come lui ha sempre avuto la coscienza di combattere sì contro il nemico, ma che al di là della linea stavano uomini come lui.
Ricorda infine: «Ho avuto la fortuna di aver incontrato tanta brava gente in tutti i posti in cui sono stato, dalla quale ho avuto tanto aiuto e sono sempre stato ben visto. Il mio era probabilmente un destino già scritto, ma sono convinto di essere tornato a casa dopo anni di guerra e di difficoltà anche perché, pure nei momenti di grande sconforto, io ci ho sempre creduto.»

Omar Gatti