Storie dei nostri veci

FERDINANDO PASIN

Dicembre 1999

L’Alpino Ferdinando Pasin di Refrontolo rievoca,
in un’intervista, la sua esperienza di guerra nella ritirata di Russia.

Nel mese di ottobre del 1942 la divisione alpina Tridentina, arrivata in Russia durante l’estate, si schierò definitivamente sulla riva destra del Don, nel tratto compreso tra Karabut e Bassowka, su di un fronte lungo ben 28 chilometri.
Il signor Ferdinando Pasin di Refrontolo, protagonista e testimone di quella campagna militare conclusasi con la battaglia di Nikolajewka, ha lasciato a Fiamme Verdi la seguente intervista.

Con quale battaglione giunse in Russia nell’estate del ’42?
Arrivai in Russia al seguito del battaglione Verona della divisione Tridentina.

Quando e dove vi siete attestati definitivamente sul Don?
Nel mese di ottobre. Il nostro battaglione si trovava all’estremo nord di tutto lo schieramento italiano in Russia. Alla nostra sinistra c’era l’armata Ungherese e alla nostra destra il Battaglione Val Chiese.

Quando cominciò l’offensiva sovietica nel settore tenuto dal vostro battaglione?
Lungo il fronte presidiato dal nostro battaglione, noi non subimmo nessuna offensiva. Le prime vere battaglie cominciarono per noi solo due giorni dopo l’inizio del ripiegamento.

Come si svolgeva la vita di trincea in tutti questi mesi di passiva attesa?
In un primo tempo abbiamo costruito i nostri camminamenti e i nostri rifugi per l’inverno. Poi quando cadde la neve, vestiti di bianco e in pattuglie isolate andavano, di notte, al di là del Don per compiere qualche azione di disturbo tra le linee nemiche. Il nostro compito si limitava a distruggere qualche postazione nemica e a catturare qualche prigioniero.

Lei ha mai partecipato a queste azioni di guerra?
Si. Tre o quattro volte.

Quando avete dovuto lasciare le vostre posizioni sul Don?
Il giorno 17 di note. Il nostro Corpo d’Armata Alpino, formato dalla Julia, dalla Cuneense, dalla divisione di fanteria Vicenza e dalla Tridentina, era ormai completamente accerchiato dai Russi. Non ci restava che ripiegare.
Raggiungemmo quindi Podgor sede del comando della Tridentina. Da questa località al comando del maggiore Bongiovanni e scortati da due cannoni tedeschi da 105 trainati da semicingolati, cominciò per noi del battaglione Verona quell’odissea che ci portò dopo numerosi combattimenti e faticose marce fuori dalla sacca.

Quanti combattimenti avete sostenuto?
Non so. Tanti. Non li ho mai contati.

Chi vi riforniva di armi durante la ritirata?
Nessuno. Raccoglievamo le munizioni e le armi abbandonate dai russi o da quei nostri compagni che cadevano in battaglia. Ce n’erano una infinità.

Quando avete affrontato per la I^ volta la tragica esperienza dei carri armati russi?
Non ricordo esattamente il giorno. Ricordo solo che avevamo oltrepassato un paese con un mulino a vento, quando ci facemmo sorprendere per la I^ volta dai carri armati nemici. Questi venivano giù da una collina sparando e tagliando l’ultima parte della colonna della quale facevo parte. Di corsa cercai di allontanarmi il più possibile, insieme al resto del mio battaglione, dal luogo dello scontro. In quell’occasione mi alleggerii dello zaino pesante e tenni per me solo quello leggero, le bombe a mano e il fucile mitragliatore che avevo in dotazione.

E tutte le altre volte come ve la siete cavata in circostanze simili?
Come ho detto all’inizio di questa mia intervista, il mio battaglione era sempre preceduto o seguito a due cannoni da 105 trainati da mezzi meccanici tedeschi, sui quali saliva spesso il nostro comandante maggiore Bongiovanni. All’apparire dei carri questi venivano messi in posizione di tiro e sotto i colpi dei loro proiettili i carri si allontanavano.

Ricorda i nomi di alcuni suoi amici morti o dispersi durante il ripiegamento?
Voglio ricordare Pietro Mazzero di Solighetto, Andrea Zambon di Pieve di Soligo e un certo Zanin di Tovena.

Quando li ha visti per l’ultima volta?
Vidi il Mazzero e lo Zambon prima di lasciare il Don e credo siano morti il giorno della battaglia di Postojali. La loro compagnia, la 56^, fu la prima quella mattina ad essere impiegata nel tentativo di scacciare i Russi dal paese e lasciò sul terreno molti morti tra ufficiali e soldati. Dopo quella data nonostante le mie speranze di trovarli vivi tra i prigionieri che ogni tanto liberavano, non ebbi più notizia di loro.

E lo Zanin di Tovena?
Questi venne colpito in un combattimento coi partigiani, Lo raccogliemmo ferito all’addome da dove perdeva molto sangue e lo portammo in un’isba. Mi supplicava di non abbandonarlo. Ma non potevamo portarcelo dietro, Non avevamo i mezzi, né io potevo restargli accanto. Se mi fossi fermato avrei perso il contatto con la mia compagnia che proseguiva la sua marcia verso ovest e correvo il rischio di restare là per sempre.

Quando siete arrivati a Nikolajewka?
Io con il mio battaglione arrivai in vista di Nikolajewka alle otto di mattina, ma la città era già occupata dai russi, qualche nostro plotone aveva cominciato subito ad andare all’attacco ma senza successo. Solo nel pomeriggio, noi che eravamo nella parte sud di tutto lo schieramento alpino, ci dirigemmo con il resto della Tridentina contro il nemico. Appena ci muovemmo, questi cominciò a convergere il tiro delle sue armi contro di noi. Ci fu allora un attimo di incertezza da parte nostra. Ma ormai ci era impossibile tornare indietro; saremmo stati colpiti alle spalle senza possibilità di salvezza.
Nell’avanzare di corsa là dove i Russi ci sparavano addosso, vedevo i miei compagni, che stavano attorno e davanti a me, cadere colpiti dalle raffiche di mitraglia o dallo scoppio delle granate. Arrivati sul terrapieno della ferrovia lanciammo le nostre bombe a mano e i russi fuggirono via precipitosamente, lasciando intatte, sul terreno, tutte le loro armi.

Poi cosa avete fatto?
Siamo andati a disotturare i tre o quattro cannoni e alcuni mortai che ci avevano ostacolato l’avanzata. Ma la prima cosa che feci al termine dell’assalto fu quella di toccarmi il corpo per vedere se c’erano ferite. Ancor oggi mi chiedo come sia potuto uscire indenne senza un graffio da quell’inferno.

Ha visto la chiesa di Nikolajewka?
No. Da dove mi trovavo io vedevo solo la parte alta del campanile.

Cosa altro ricorda di quella giornata?
La sera. Quando calarono le tenebre, la luna illuminava il versante dal quale eravamo scesi il pomeriggio. Ma la collina era talmente disseminata di cadaveri che non rifletteva più il suo candore. Inoltre fino alle dieci, nel silenzio e ad intervalli irregolari proveniva l’eco delle urla e delle invocazioni di quei soldati, che feriti e nell’impossibilità di essere soccorsi, stavano vivendo, sulla collina, l’ultimo atroce dramma della loro vita.

Quanti anni aveva quando visse questa esperienza?
Vent’anni e sei mesi.

I russi lasciarono sul terreno un numero enorme di armi leggere, 25 cannoni di medio e grosso calibro e dieci carri armati distrutti.
Secondo le testimonianza del tenente Giuseppe Cancarini Ghisetti, ufficiale di artiglieria con il compito di collegamento tra il Corpo d’Armata Alpino e il XXIV Panzer Korp, alcuni carri furono distrutti da due cannoni tedeschi trainati da semoventi ed entrati in Nikolajewka al seguito degli alpini. Gli altri, secondo le testimonianza dell’artigliere Giacomo Gozzini, furono colpiti dai cannoni della 29° batteria gruppo Valcamonica.
Non è stato possibile stabilire con esattezza quanti furono i morti tra gli alpini in quest’ultima e disperata battaglia, il cui esito vittorioso permise però di portare in slavo, fuori dalla sacca, ben ventimila militari italiani e quindicimila tra tedeschi e ungheresi.

Giuseppe Perin


Dicembre 2008

S. Antonio protettore degli Alpini, parola di Ferdinando Pasin

Ferdinando Pasin è nato a Pieve di Soligo il 19 luglio 1922.
Nei primi mesi del 42 venne chiamato alle armi e destinato al battaglione Pieve di Cadore nel VII reggimento alpini.
Nel maggio dello stesso anno fu spostato nel battaglione Verona VI reggimento alpini, divisione Tridentina dove si preparò alla partenza per il fronte russo.
Nel mese di ottobre, dopo un lungo viaggio con il treno addetto al trasporto del bestiame, fino a 150 km dal fronte e poi proseguendo a piedi, la divisione Tridentina prese posizione nella zona di Podgor sulla sponda destra del fiume Don.
Per quasi tre mesi questo fronte si rivelò abbastanza tranquillo, pur non mancando gli assalti quotidiani da parte di battaglioni e compagnie russe con lo scopo di testare la forza degli alpini, ma, oltre agli attacchi nemici il problema maggiore per i nostri soldati era il freddo (la vigilia di Natale il termometro segnò -45°C) e le condizioni di vita molto precarie.
Questa situazione difficile ma di relativa calma andò avanti fino al 17 gennaio del 1943 quando, completamente accerchiata la divisione Tridentina, alla sera, iniziò lo sganciamento del fronte e una lunga fase di combattimenti, ben presto si resero conto di non avere i mezzi per contrastare un esercito come quello russo, armato di potenti carri armati T34 e dei famosi razzi Katiusha.
Da qui inizia la catastrofica ritirata di Russia e il battaglione Verona fu fin da subito impegnato a Opit, in prima linea, subendo perdite gravissime. Dal 17 al 26 gennaio la divisione Tridentina venne impegnata in 11 battaglie, l’ultima e più sanguinaria fu la battaglia di Nikolajewka: dalle 9 di mattina alcuni reparti della Tridentina, tra cui il battaglione Verona, prese d’assalto la cittadina russa dove vi erano preponderanti forze russe armate con numerosi cannoni, mortai, mitragliatrici.
Gli assalti continuarono per tutta la giornata finché, verso sera, il Generale Reverberi col grido “Tridentina avanti!” trainò l’intera divisione all’assalto e, nonostante le ingenti perdite di uomini, riuscirono a sfondare l’accerchiamento russo.
Calata la notte, la luna piena illuminava il versante dove era avvenuta la battaglia, la collina era coperta di cadaveri al punto che non si vedeva il candore riflesso della neve. Inoltre, fino a notte fonda si udirono le urla e le invocazioni dei soldati che, gravemente feriti, erano sul campo di battaglia a causa dell’impossibilità di prestargli soccorso e stavano vivendo l’ultimo atroce dramma della loro vita.
Ferdinando Pasin disse e ripeté tante volte che fu grazie a S. Antonio da Padova che riuscì a scampare da quell’inferno: egli aveva una piccola reliquia che teneva sempre con sé e nei momenti peggiori, mentre vedeva intorno i compagni cadere, la stringeva forte.
Sta di fatto che la sua fede in S. Antonio, la forza dei vent’anni ed anche, naturalmente, un po’ di fortuna lo portarono sano e senza aver riportato alcuna ferita in Italia.
Al ritorno, ai primi di marzo, rimase per un mese a Tarvisio dove fu sottoposto a vari esami e fu, assieme agli altri sopravvissuti, riabilitato e preparato per il ritorno a casa. Fu a Tarvisio che per la prima volta, dopo quattro mesi, riuscì a lavarsi, cambiarsi gli abiti ed a disinfestarsi dai pidocchi che gli si erano attaccati ovunque.
Rimase a casa un mese e fu richiamato alle anni a Bolzano.
Il 9 settembre fu fatto prigioniero dai tedeschi e mandato nei campi di concentramento di Berlino est. Era comandato dalle SS ed aveva varie mansioni, tra cui liberare le zone bombardate dai cadaveri.
Nel maggio 1945, ironia della sorte, fu liberato dall’esercito russo entrato a Berlino. Dopo quasi due mesi riuscì a ritornare a casa, la maggior parte del tragitto la percorse a piedi.


Ferdinando Pasin, Germano Collodel, Giovanni Tormena