Storie dei nostri veci

ERA UN UOMO

Da circa venti giorni  mi trovavo nella tradotta che trasportava un numeroso carico di reduci dalla Russia.
Eravamo tutti italiani ex prigionieri di guerra della campagna bellica contro i russi, nella seconda guerra mondiale.
Stavo ritornando in Italia, alla mia casa dopo tre anni di assenza, di cui una parte trascorsa in combattimento in prima linea, il rimanente in prigionia.
Il convoglio era partito da Kinesma, cittadina a quattrocento chilometri a nord – est di Mosca e aveva seguito la linea baltica, attraversando la Russia settentrionale, toccando l’Estonia e la Lituania e quindi, probabilmente, si era entrati in territorio polacco.
Avevamo viaggiato molto lentamente con frequenti fermate, anche di un paio di giorni, per dare la precedenza a trasporti evidentemente più importanti del nostro, come treni carichi di soldati russi che rimpatriavano, o di merci.
Alcune di queste fermate erano state avventurose come conseguenza della nostra curiosità o della necessità.
Infatti, ci capitò di trovarci accanto anche a convogli carichi di viveri che, inevitabilmente, costituivano una forte attrazione per chi aveva fame. Noi italiani, a causa della cronica e fatalmente ormai congeniale carenza di cibo nel nostro esercito, eravamo diventati degli esperti nell’arte dell’arrangiarsi e fummo costretti anche in questo lungo viaggio di rimpatrio, come reduci, a ricorrere alla nostra arte, magari rubando.
A volte questo poteva avere conseguenze drammatiche. Infatti, due reduci, mentre cercavano di rubare un pezzo di pane, avevano trovato invece un colpo di fucile che toglieva loro la vita, proprio quando, dopo aver superato difficoltà e sofferenze di ogni genere, stavano per giungere a casa, meta tanto agognata!
Altri avevano perduto il convoglio, pur di  non abbandonare il secchio pieno di patate che avevano raccolto in un campo durante una sosta del treno; il peso del secchio impediva  loro di correre per raggiungere la tradotta che riprendeva il viaggio e si allontanava sempre più, ma non potevano lasciarlo: una forza superiore, il complesso del cibo e della fame, impediva loro di abbandonarlo e tutti e due stringevano il manico del recipiente con morbosa tenacia.
Deposto infine il prezioso carico, desolati, erano rimasti ad osservare il treno che inesorabilmente se ne andava.
In occasione di un ulteriore arresto del treno, alcuni compagni del mio vagone, incuriositi dagli allegri suoni che giungevano da un paese che si trovava al di là di un boschetto e che faceva supporre che lì si facesse festa, senza pensarci troppo, si recarono in sopralluogo.
Noi, che eravamo rimasti nel vagone, quasi quasi li stavamo invidiando, quando li vedemmo giungere a corsa sfrenata, inseguiti da individui che li minacciavano con grossi randelli e temibili lanci di sassi.
Noi prontamente aprimmo gli sportelli del vagone per farli entrare e li richiudemmo immediatamente, mentre uno di noi si poneva in osservazione alla fessura di un finestrino.
Non era larga l’apertura, ma comunque piuttosto grosso il sasso che riuscì a passare e che lo colpì in piena fronte, fortunatamente senza gravi conseguenze, se non un bel bozzo che si portò come ricordo in Italia. Era successo che i nostri curiosi erano capitati nel bel mezzo della festa e vi avevano partecipato allegramente e, a quanto pare, con eccessiva intraprendenza tipicamente italiana, nei confronti delle ragazze. Ciò aveva provocato la furibonda reazione dei maschi che continuavano ora a colpire il vagone con una nutrita sassaiola, tentando anche di entrare. Fortunatamente il convoglio riprese il cammino liberandoci dall’assalto.
Il viaggio continua.
Ancora una volta la tradotta si arrestò. La fermata si prospettava piuttosto lunga. Si era nell’immensa pianura del territorio polacco, la quale, come la steppa russa, si stende a perdita d’occhio e che ora, alla fine di ottobre, appariva arida, bruciata dai primi freddi.
Non molto distante dominava, minaccioso, un grosso carro armato. Troneggiava tutto ruggine, sicuramente inoffensivo, ma che ricordava non molto lontani rapporti piuttosto sgradevoli.
Comunque, volli andarlo a vedere da vicino.
Non avrei saputo riconoscerne con sicurezza la nazionalità; probabilmente era tedesco. La torretta era aperta. Mi arrampicai sul carro armato e, data un’occhiata prudenziale al treno, per controllare che non vi fossero accenni di  movimento, cautamente scesi all’interno. Qui mi colpì una visione inattesa ed emozionante: sdraiata sul fondo del carro armato giaceva una figura umana: un uomo completamente nudo, le cui dimensioni sembravano rimpicciolite. Il corpo era tutto di un colore marrone rossiccio, come un mattone da costruzione, un colore caldo come quello, senza voler mancare di rispetto, di un pollo arrosto. Era ridotto a piccole dimensioni pure il suo membro, che ricordava quello di un bambino, e anche i lineamenti del viso risultavano minuti.
Tutto appariva press’a poco dello stesso colore marrone rossiccio: il grande semovente, la vasta pianura, il misero uomo. Egli era rinchiuso in quella massa di ferro ruggine, sicuramente già da alcuni anni, mentre la guerra si svolgeva e finiva, i belligeranti concludevano la pace e si accingevano a ricucire le ferite, a ricostruirsi l’esistenza.
E lui era sempre là immobile nel suo caldo colore rossiccio, sicuramente bruciato dentro a quel mostro di metallo, dai lanciafiamme nemici, atteso invano da parenti ed amici che probabilmente oramai si erano consolati della sua perdita. Ora era una cosa. Era una figura ormai mummificata nel tempo.
Eppure era stato un uomo, un uomo giovane che aveva amato, gioito, sofferto, aveva riso, sognato e imprecato, aveva sperato.
I signori della guerra si erano serviti di lui come di tanti altri, per i loro demagogici e falsi principi patriottici e di portatori di civiltà; nella realtà, invece, lo avevano sacrificato alla loro delittuosa ambizione di dominio.
Ed egli era là, bruciato e dimenticato nella sua gigantesca bara di ferro, solo, nella pianura sterminata.

Giulio Rupil - Mestre
reduce della campagna di Russia

Altri racconti sono stati pubblicati sul Gazzettino. E' disponibile un libro di ricordi di Russia intitolato "Di qua e di là del fiume": attualmente lo si può trovare presso la libreria Tarantola di Venezia (Campo San Luca).