Vecchia Conegliano e dintorni

DON DOMENICO E GLI SPIRITI

Giugno 2002

DON DOMENICO
e gli spiriti

Tanti anni fa dimorava nel mio paese (Castello Roganzuolo) una famiglia di mezzadri di cui assieme alla memoria si è perso anche il nome. Qualcuno ne ricorda vagamente il soprannome: i Dabonet.
Si trattava di persone molto religiose ed osservanti. Ogni qualvolta nella campagna si diffondeva lo squillo della campana essi fermavano i lavori nei campi e, bloccati gli armenti, si volgevano verso la chiesa per una prece. Le fasi della vendemmia erano accompagnate da canti liturgici; e così i filari dei vigneti si trasformavano in sacre ed irreali navate aperte verso il cielo. La domenica, dopo il Vespro, scendendo verso il borgo i Dabonet non si fermavano con gli altri per una partita a carte nell’osteria di Albero Segat o in quella del Titta per una gara a bocce, ma si inoltravano verso casa e, smessi gli abiti da festa, aspettavano in religioso silenzio la fine della giornata. E, quando si rendeva necessario qualche intervento nei campi nel giorno festivo, erano soliti chiedere prima l’autorizzazione al parroco.
Il segno della santa croce precedeva tutte le attività nella campagna dal momento che, per la loro grande religiosità, questa era vista come un grande tempio dove Dio si manifestava.

Ma le forze del bene sono contrastate da quelle del male e, si sa, chi coglie la presenza del divino in tutto è altrettanto pronto e sensibile ad avvertire le manifestazioni del maligno...
E così negli assolati pomeriggi in cui i Dabonet erano impegnati nella fienagione, nel silenzio rotto irregolarmente dai mille suoni che popolano la campagna il maligno faceva la sua comparsa sotto forma di sassi che ...piovevano dal cielo.
«I spiriti!!... i spiriti!!...» Ed era subito panico ed un disordinato e trafelato fuggi fuggi attraverso i campi per rifugiarsi in casa. Qualche sasso arrivava anche contro le vecchie imposte scarnificate dal sole, che venivano frettolosamente richiuse dall’interno dove già bruciava l’ulivo benedetto.
E la campagna restava in totale balia degli spiriti.

Questi facevano la loro prima comparsa all’apparire dei primi nespoi a maggio; ripiombavano poi al maturare dei amoi e quando il rosso carico dee sarese ne rivelava l’interno appetibile e succoso; imperversavano a giugno, quando era l’ora dei primi pon e perete de San Piero; ricomparivano a luglio al maturare dei perseghi de San Giacomo e si manifestavano a fine luglio, quando sui tralci compariva la prima ua de Sant’Ana; non concedevano tregua ad agosto, per i fighi de’a prima e de’a seconda; e poi via via fino ai peri de San Martin...
A Castello c’era la persona giusta per debellare gli spiriti: don Domenico Baldassar.

L’agricoltura fiorente di oggi non sa più cosa siano malattie della vite come l’oidio, la peronospora, il carbone del mais, la segale cornuta, il baco che diviene flaccido e s’affloscia senza produrre seta, le contagiose malattie del bestiame, il pollame e gli animali da cortile che muoiono fulminati dalle pestilenze. Ora infatti tali malattie o sono state debellate o vi si pone rimedio con una farmacopea adeguata.
Non erano calamità necessariamente ricorrenti, né, quando si abbattevano, si riversavano tutte contemporaneamente; ma ne bastava una all’anno. E se moriva il maiale era una disgrazia immane. Erano anni duri, sono sempre stati anni duri per chi affida alla terra tutto il suo lavoro.
Ma forse il flagello più temuto poteva venire dal cielo: bastava infatti una grandinata primaverile sull’uva in fiore e sulle foglie di gelso per vanificare in pochi attimi il duro lavoro di una intera annata. E non c’erano le assicurazioni contro la grandine.

Don Baldassar era un parroco umile e poverissimo. Talmente povero che tanti ricordano di averlo visto spesso con la veste a sbrindole. Era perennemente assillato da problemi finanziari, non tanto quelli suoi quanto quelli della sua famiglia. Si dice che i fratelli lo aspettassero fuori dalla chiesa dopo la messa mattutina per chiedergli e portargli via quelle quattro palanche (ed a quell’epoca dovevano essere proprio quattro) che era riuscito a racimolare nella borsa delle offerte.

Don Baldassar era comunque molto attaccato ai suoi parrocchiani e questi, nonostante qualche problema finanziario lasciato alla parrocchia, serbarono di lui un bel ricordo: perché negli anni in cui fu parroco mai la tempesta si abbatté nelle campagne di Castello. Si diceva infatti che don Domenico osasse sfidare il temporale.
Si raccontava che quando le nuvole cominciavano a farsi grosse ed il cielo diventava cupo e minaccioso, il parroco percorreva il viale di tigli che dalla canonica porta alla chiesa urlando salmi incomprensibili e percotendo la terra ed i tronchi con grosse e fragorose catene; un tentativo di allontanare la violenza del turbine con un rito violento, e demoniaco, se non fosse per i sacri versi latini che lo accompagnavano.
Chi meglio di don Baldassar poteva allontanare gli spiriti maligni che imperversavano nei campi dei Dabonet?
Don Domenico non poté sottrarsi al ruolo di esorcista. Gli ampi gesti con cui, inoltrandosi nei campi, aspergeva l’acqua santa, erano sottolineati da arcani e minacciosi versetti e dai ripetuti segni di croce dei Dabonet che seguivano appresso in religiosa partecipazione. Particolare attenzione don Baldassar la riservava alle siepi, sapendo che proprio lì si annidavano gli spiriti, spiriti in carne ed ossa, spiriti con tanto di nome e cognome...

Come esorcista don Domenico non ebbe grande fortuna. E così ogni anno con la stagione dei frutti gli spiriti ricominciavano a piombare dal cielo.
Terminavano la loro opera ad ottobre inoltrato, quando ormai sulle punte più alte dei tralci non restava che qualche racimolo d’uva, sfuggito alla vista dei vignaioli, rinsecchito ma reso dolcissimo dal freddo, per il gusto di qualche mano furtiva o per permettere a qualche passero di pasteggiare. Prima che l’inverno divorasse anche le foglie.

Gianfranco Dal Mas