Storie dei nostri veci

DINO BIANCO e ANTONIO BERNARDI

LA STORIA AVVENTUROSA DI DUE ALPINI


Appena dopo la liberazione, sul carro di cui
si parla: da sinistra, Stefano Ambrogi, Nazareno
Astolfi, Luca De Tullio, Ercole Pancrazio.
La foto è stata scattata da Dino Bianco.



Da sinistra: Ernesto Pilat e Antonio Bernardi
(detto “Mondo” in memoria di uno zio, Sigismondo,
morto durante la prima guerra mondiale) in servizio
ad Agordo, prima dell’otto settembre

INCONTRO CON I PROTAGONISTI

Dino Bianco e Antonio Bernardi non hanno partecipato a nessuna campagna militare durante la seconda guerra mondiale. La loro storia merita però di essere ricordata: hanno servito la Patria come Alpini, arruolati troppo tardi per combattere, ma in tempo per essere internati in un campo di lavoro in Germania. Il loro destino è stato uguale a quello di molti altri soldati italiani, disprezzati come “badogliani” traditori  dai tedeschi e come tali arrestati, dopo essere stati abbandonati a se stessi all’indomani dell’otto settembre 1943.

LA PARTENZA
Siamo partiti, raccontano, il 10 maggio 1943 da Refrontolo, destinazione Pieve di Cadore, presso il Battaglione Cadore dove siamo stati arruolati. Classe 1924, diciannove anni. (Dino è nato il 12 febbraio, Antonio è nato il 7 gennaio 1924).
Non abbiamo ricevuto nessuna cartolina precetto, siamo stati chiamati alle armi con degli avvisi murali e siamo partiti rassegnati al nostro destino: l’educazione ricevuta ed il forte controllo che il regime fascista ancora esercitava dappertutto non lasciavano altre possibilità, sottrarsi alla chiamata era semplicemente impossibile. Però si sperava in una rapida fine della guerra, che sarebbe terminata con l’inevitabile sconfitta dell’Italia e della Germania: le notizie che arrivavano da tutti i fronti erano disastrose, e non lasciavano certo sperare in qualcosa di diverso.
Finito il periodo d'addestramento saremmo dovuti andare in Francia, con la Divisione Pusteria, fuciliere (Dino) e compagnia controcarro (Antonio), ma le cose cambiarono rapidamente e così noi in Francia non ci siamo mai andati. Intanto eravamo a Pieve di Cadore, due etti di pane il giorno, rancio misero e pasta solo la domenica, da casa mandavano qualcosa: farina da polenta e salame che erano una vera benedizione!

Ben presto arrivò il venticinque luglio 1943, non avevamo ancora prestato giuramento, ma già eravamo impegnati in servizi armati di vigilanza, spesso di ronda con i Carabinieri. Proprio dal maresciallo che ci comandava, racconta Dino, ho saputo della caduta di Mussolini, la notte del venticinque luglio smontato dal servizio che prestavo in Agordo. Pensavamo ingenuamente che la guerra fosse finita, si festeggiava addirittura e si pensava già al rientro a casa. Non pensavamo certo a quello che ci attendeva, del resto le informazioni erano scarse, c’erano pochi giornali ed in ogni caso noi non li leggevamo.
Dopo quella data intanto per noi non era cambiato molto: sempre assieme abbiamo prestato giuramento in Agordo ed abbiamo continuato la nostra attività di vigilanza, anche a Bassano per circa un mese, in seguito.

L’OTTO SETTEMBRE 1943
Proprio quando eravamo nel vicentino è arrivato l’otto settembre 1943: la fuga del re, del capo del governo, Badoglio e delle più alte cariche dello Stato; com’è noto l’Esercito Italiano, lasciato senza ordini e senza guida, si è sbandato. La reazione dei tedeschi, al tradimento che peraltro si aspettavano, è stata fulminea: hanno arrestato ed imprigionano tutti i soldati italiani ex alleati divenuti traditori che hanno potuto individuare.
Molti si sono salvati, anche alcuni nostri commilitoni, grazie al loro spirito d’iniziativa e forse grazie anche ad un provvidenziale colpo di fortuna, come Rino Bottega, sempre da Refrontolo. Per noi due le cose sono andate diversamente, purtroppo. Anche noi abbiamo tentato la fuga, ma ci è andata male. E dire, racconta Dino, che pochi giorni prima avevo accompagnato alla stazione ferroviaria il nostro capitano, Ubaldo Starnoni, gli ho portato le valigie, andava in licenza tranquillamente, credo che nemmeno lui sapesse che cosa si stava preparando. Non l’ho mai più rivisto.
Comunque sia ci hanno catturato, assieme agli ufficiali, tra i quali ricordiamo il tenente Pina, da Ravenna, che abbiamo incontrato più volte, dopo la guerra ed il tenente Mai, che per sua fortuna è riuscito a scappare subito dopo l’arresto.
Prima destinazione è stata Mantova, dove venivano ammassati prigionieri in gran numero, di tutti i corpi ed i tedeschi organizzavano i treni diretti in Germania, via Brennero o via Tarvisio.

DESTINAZIONE MALCHOW
A Mantova è quindi cominciata la nostra avventura, che è durata  poco meno di due anni. Sessanta uomini ogni carro bestiame, con una sete tremenda fin dalla partenza ed in condizioni igieniche facili da immaginare, abbiamo iniziato il nostro viaggio. Sarebbe durato parecchi giorni e ci avrebbe condotto a Malchow, (oggi nel lander Mecklenburg Vorpommern). Quanto esattamente sia durato non lo ricordiamo: le terribili condizioni nelle quali eravamo tenuti dopo un po’ ci hanno fatto perdere anche il senso del tempo.
Il treno ha preso la via del Brennero ed alla stazione di Bolzano si è fermato, c’erano delle crocerossine e noi abbiamo dato loro le nostre borracce vuote e qualche soldo: no, le borracce non ce le hanno riempite d’acqua come speravamo, in compenso si sono tenute i soldi e ci hanno riempito di insulti.
Il viaggio poi è ripreso, con frenate improvvise del treno, fatte apposta per renderlo ancora più insopportabile ed i contadini che, mentre il treno viaggiava nella campagna tedesca, mimavano con la mano il taglio della gola, rivolti verso di noi.
Un particolare curioso: abbiamo saputo, a guerra finita, che molti nostri compagni, più fortunati, diretti in Germania via Tarvisio sono riusciti a scappare durante il viaggio, semplicemente perché i vagoni nei quali viaggiavano non erano stati piombati.

Circa tre giorni dopo, giunti in una Berlino segnata da un recente bombardamento, abbiamo ricevuto acqua e cibo, poi siamo ripartiti, ancora un altro giorno di viaggio ed ecco Neubrandenburg, eravamo ormai prossimi all’arrivo.
C’erano migliaia di altri soldati italiani, a Neubrandenburg, provenienti dai vari fronti dove si trovavano alla data dell’otto settembre, li ci hanno inquadrati, tutti allineati e coperti; quindi ci hanno chiesto se volevamo arruolarci nell’esercito tedesco. Un’ora per pensarci dopodiché, dicevano, ci avrebbero fucilato, in caso di risposta negativa.
Noi non sapevamo cosa fare, eravamo ancora insieme ai nostri ufficiali, che non ci potevano certo più dare ordini, ma non erano in grado nemmeno di consigliarci. Alcuni hanno firmato (qualche centinaio di uomini) ed a loro è stato dato cibo ed acqua immediatamente. Ma era tale il loro disorientamento, l’incertezza e la paura che molti di loro non riuscivano nemmeno a mangiare, nonostante la fame che pativano sicuramente da diversi giorni.

Alla fine abbiamo deciso di  non firmare. Dopo questa prova i tedeschi hanno dato a tutti da mangiare: patate lesse versate direttamente per terra, sulle quali ci siamo buttati come animali affamati!
Ci hanno chiesto poi quale fosse il nostro lavoro e quasi tutti hanno risposto di essere contadini. Ancora in treno siamo arrivati infine alla destinazione finale: Malchow .
Siamo stati alloggiati in baracche all’esterno del campo vero e proprio, dei civili russi ci hanno portato cibo e ci hanno tagliato i capelli.

INTERNATI MILITARI
Solo dopo qualche giorno siamo stati portati nel nostro posto di lavoro: la grande fabbrica, vicinissima, tanto che ci siamo arrivati a piedi. Si lavorava sotto la stretta sorveglianza di capireparto piuttosto anziani che probabilmente per questo avevano evitato il fronte ed erano stati assegnati ad incarichi di sorveglianza. Antonio ricorda ancora bene il suo capo, non era una cattiva persona - dice - durante la prima guerra mondiale era stato in Italia ed aveva combattuto sul Piave. Solo una volta ha messo le mani addosso ad uno di noi: tale Ambrogi Stefano, che gli aveva parlato dell’imminente arrivo degli americani.
L’attività principale della fabbrica consisteva nel confezionare cariche esplosive, soprattutto per l’artiglieria: l’esplosivo arrivava in sacchi, sui treni. La fabbrica era mimetizzata dalla vegetazione, divisa in tanti bunker dove  lavoravano russi, polacchi, francesi, italiani….Altri bunker, corazzati con una calotta d’acciaio, servivano come riparo in caso di attacco aereo.
Dall’ottobre 1943 al maggio 1945 la nostra vita è stata più o meno sempre la stessa: sveglia alle sei e via al lavoro, non esisteva colazione, qualche volta dei fortunati riuscivano a rubare del pane alle guardie che di solito lo mangiavano a metà mattina, quando era prevista una breve sosta.
Si lavorava normalmente dodici ore al giorno, con una interruzione al momento del pranzo. Non si lavorava il sabato pomeriggio e la domenica, almeno se non c’erano treni in arrivo da scaricare. Il vitto consisteva in una brodaglia con poche verdure miste a sabbia, che sotto i denti si riconosceva molto bene, identica mezzogiorno e sera. Il rancio veniva portato direttamente nei reparti, dove vi erano dei refettori utilizzati da tutto il personale, anche se il cibo, come si può immaginare, non era uguale per tutti. Dino, che lavorava per la “Mannesmann” ed era incaricato di sostituire i motori elettrici guasti, una volta è riuscito ad impossessarsi di nascosto, aiutato dall’amico Ernesto Pilat e con grave rischio per entrambi, di una marmitta di cibo destinato ai sorveglianti.
Italiani e russi ricevevano il trattamento peggiore in fatto di vitto, i prigionieri francesi erano trattati un po’ meglio. Questo probabilmente perché gli italiani erano considerati internati militari e quindi a loro non erano applicate le garanzie previste per i prigionieri di guerra.
La fame è stata dunque la principale nemica contro cui combattere: con noi portavamo un cucchiaio, quando era possibile, per non perdere l’opportunità di mangiare qualcosa se si presentava l’occasione; questo voleva dire, per esempio, rovistare nella spazzatura, magari congelata o fra i resti del cibo lasciato dai guardiani.
Se si riusciva a mangiare quel tanto che bastava per sopravvivere ed essere in grado di lavorare, le possibilità di riportare a casa la pelle erano tutto sommato abbastanza buone. Chi si ammalava però veniva inviato in un altro campo, a Neustrelitz, (distante una sessantina di chilometri da Malchow). Da lì non sarebbe ritornato. Ricordiamo un nome però: Bettello, era un vicentino. Si era ammalato, causa le condizioni di malnutrizione, ma ha avuto  la fortuna di incontrare una donna tedesca la quale, impietosita dal suo stato, ha deciso di aiutarlo, dandogli da mangiare quel tanto che bastava per poter riprendere le forze. È sopravvissuto.
Da notare che noi, all’epoca, non immaginavamo nemmeno che esistessero i  campi di sterminio.

Eravamo alloggiati in baracche di legno, sei baracche più altre sei di fronte, ciascuna con 24 letti a castello. Il principale problema lì dentro erano le cimici ed i pidocchi  che ci molestavano continuamente, per fortuna, tutto sommato, la possibilità di lavarsi c’era. Le baracche nei mesi freddi erano riscaldate con stufe a carbone, avevamo una coperta a testa e la giacca era il nostro cuscino.
Così trascorrevano i giorni ed i mesi, a noi giungevano notizie frammentarie della guerra, portate spesso dai prigionieri nuovi arrivati. Quindi sapevamo che il fronte si stava avvicinando, ma la macchina da guerra tedesca non si fermava: in quella “fabbrica” che poi era un grande complesso industriale dove lavoravano migliaia e migliaia di prigionieri, (soprattutto), saremo rimasti fino all’inizio di maggio 1945, il giorno esatto non lo ricordiamo, si era persa la cognizione del tempo. (da notare che la seconda guerra mondiale, in Europa, finì ufficialmente alla mezzanotte dell’otto maggio 1945, n.d.r.).

Alla nostra situazione pian piano ci stavamo abituando, nostro malgrado: cosa importantissima, si cominciava a capire un po’ di tedesco e soprattutto un po’ di russo, visto che lavoravamo a stretto contatto coi prigionieri russi, militari e civili, comprese molte donne.
I russi: bravissimi sabotatori, che non perdevano occasione per farla sotto il naso alle guardie. Le iniziative più frequenti consistevano nell’aggiungere esplosivo in quantità eccessiva alle cariche che venivano allestite, col risultato di renderle estremamente pericolose per gli utilizzatori, non informati dell’effettivo potenziale. Altro esempio: le donne, in locali predisposti allo scopo ed isolati dagli altri reparti, avevano il compito di pressare le cariche, le sistemavano in un cilindro apposito, uscivano dalla sala, il pistone della pressa scendeva e compattava a dovere l’esplosivo. Ma loro spesso non lo sistemavano come prescritto all’interno del cilindro: l’attrito col pistone in discesa provocava frequenti esplosioni, apparentemente accidentali. Capito il gioco, i guardiani, le hanno obbligate a rimanere nella sala delle presse quando queste erano in funzione, così incidenti del genere non ne sono più successi.

Dall’interno dei reparti in qualche modo qualcuno riusciva anche a far giungere informazioni all’esterno: infatti nonostante che i treni non partissero ad orari prestabiliti col loro carico, venivano puntualmente bombardati. La fabbrica però non l’hanno mai colpita: certo sapevano della nostra presenza e, l’abbiamo scoperto dopo, nei paraggi c’era anche un campo con soldati americani prigionieri.

In un’occasione, in particolare, abbiamo temuto per la nostra vita: era la sera del due novembre 1943; la mattina precedente un tale Gambardella, un napoletano, si era addormentato sui sacchi di esplosivo durante il quarto d’ora di riposo che ci concedevano, scaduto il tempo, il capo per svegliarlo gli ha buttato del caffè in faccia, il Gambardella si è alzato e ha tentato di aggredirlo con un coltello. Mi ricordo perfettamente, dice Dino, eravamo al bunker 155. Di questo nostro compagno non abbiamo più saputo nulla. Ma per noi la sera non è mancata una sorpresa: ci hanno costretto a correre attorno alla baracca dove si dormiva, fino allo sfinimento, con le guardie che ad ogni angolo dell’edificio tentavano di colpirci con la baionetta. In quel momento abbiamo pensato che non ce l’avremmo fatta. Sapevamo, infatti, che c’erano grandi fosse già pronte, vicino alla fabbrica….

Nel settembre del 1944 primo importante cambiamento, conseguenza probabile di accordi con l’Italia repubblichina: ci hanno proposto di diventare civili; non capivamo bene cosa significava, o cosa avrebbe significato per noi in prospettiva, così, ancora una volta, non sapevamo che cosa rispondere: il sergente Tasca, che era rimasto con noi e lo consideravamo un po’ il nostro fratello maggiore ci ha consigliato di non firmare nulla e così abbiamo fatto. In realtà poi la nostra situazione è cambiata in ogni caso: ci hanno portato all’esterno del campo, alloggiati in casette di muratura, dove si viveva un po’ meglio. Ci veniva anche data una piccola paga, trenta marchi al mese, si godeva addirittura di una certa libertà, pur dovendo rispettare un limite di presidio. Siamo venuti a contatto anche con italiani che erano emigrati in Germania prima della guerra e che dopo l’otto settembre si erano trovati nelle nostre stesse condizioni: non c’era un buon rapporto fra noi e loro, ai loro occhi eravamo sempre i badogliani traditori.

Dopo un anno di prigionia qualche momento di felicità: la prima posta da casa! Perfino dei pacchi, con del cibo e preziosissime sigarette, che potevano essere scambiate con altro cibo. I pacchi però non arrivavano quasi mai integri: le cose ormai andavano assai male anche per i tedeschi, e qualcuno trovava il modo di impossessarsi delle cose più utili contenute nei pacchi stessi prima che questi giungessero a destinazione.
E così abbiamo vissuto fino al maggio 1945, qualche contatto con le nostre famiglie, gli aerei americani che lanciavano volantini nei quali ci invitavano a resistere e sabotare, il fronte che si avvicinava.

LA LIBERAZIONE
All’inizio di maggio 1945 eravamo ancora ai nostri posti di lavoro, poi, improvvisamente, la fabbrica è stata evacuata e ci è stata ridata la libertà, nel senso che siamo stati abbandonati al nostro destino. Una cosa era chiara fin da subito a tutti noi: non bisognava finire nelle mani dei russi, era preferibile raggiungere il territorio in mano americana e lì consegnarci. Così ci siamo diretti verso il paese chiamato Parchim, distante un paio di giorni di cammino. Abbiamo passato una notte nei boschi, la seconda abbiamo tentato di chiedere asilo in una casa, ma una donna tedesca in divisa ed armata di pistola ci ha scacciato. Altra notte nei boschi, faceva anche freddo e nevicava, sebbene fossimo in maggio, avevamo qualcosa con cui coprirci per fortuna, siamo riusciti anche ad accendere un fuoco.

Pare incredibile ma, abbandonata la fabbrica, ci siamo trovati, come si dice, a nuotare nell’abbondanza. Un momento prima non avevamo nulla, ora i russi, (eravamo nel territorio da loro occupato) ci consentivano di fare bottino di guerra; a differenza degli americani che non permettevano cose del genere.
E via! Tutti su un carro trainato da quattro cavalli, uno lo abbiamo cambiato dopo un po’ perché era ferito, con ogni ben di Dio a bordo. Dino con una fisarmonica ed Antonio con un bel paio di stivali nuovi. I russi mitragliavano le colonne in fuga, c’era il caos totale ed era facile trovare anche cose di valore abbandonate lungo le strade. Finalmente siamo riusciti a lasciare il territorio in mano sovietica ed a consegnarci agli americani. Grande festa! Ci avrebbero portato a casa quanto prima, in aereo addirittura, dicevano. Per salire sull’aereo però bisognava disfarsi di tutto ciò che avevamo con noi, consentiti solo 18 Kg di bagaglio ogni uomo. Così Dino si è tenuto delle posate, Antonio i famosi stivali. Quei ricordi li conservano ancora oggi.

Siamo stati ammassati in un campo, temporaneamente, ed a questo periodo risale l’ultimo ricordo veramente drammatico: l’uccisione per opera di alcuni ormai ex prigionieri di due SS, che erano stati individuati dopo che si erano spacciati anche loro per prigionieri, nel tentativo di farla franca, ma le evidenti buone condizioni di salute li avevano ben presto smascherati. Così li hanno ammazzati a bastonate, racconta Antonio: ho tentato di fermare uno degli uccisori, senza successo. Dopo ho saputo che costui, italiano che aveva partecipato alla guerra nei Balcani, era stato protagonista di episodi analoghi contro i partigiani comunisti. Gli americani lo hanno poi fotografato accanto ai cadaveri.
Poco dopo gli americani ci hanno portato sulla sponda occidentale dell’Elba, che abbiamo attraversato su un ponte di barche e ci hanno consegnato ai loro alleati inglesi. Lungo la costa, questi, avevano fatto sgomberare alcuni paesi dagli abitanti, in quelle case ci hanno quindi alloggiato, e li siamo rimasti per circa due mesi, fino al rientro in Italia.

ULTIMI RICORDI
Luglio e buona parte di agosto 1945 lo abbiamo passato in quei paesi, sulla costa del Mare del Nord, in case confortevoli, dai tetti di paglia.
Si riusciva anche a pescare, con la corrente elettrica, perché la fame non mancava, nemmeno sotto gli alleati in quegli ultimi giorni di permanenza in Germania. Ma ci si poteva arrangiare…così una volta siamo riusciti anche a mangiare la carne di una manza della quale ci eravamo impossessati, poi con mezzi di fortuna siamo riusciti a fare il sidro con le mele che da quelle parti abbondavano, per dopo distillarlo con un alambicco costruito da noi, producendo così una (terribile) acquavite.
Un bel ricordo: Dino racconta di essere riuscito a salvare  un bambino tedesco che aveva dato fuoco, giocando, ad una tanica di benzina abbandonata: avvolgendolo con una coperta ha evitato il peggio.

RITORNO A CASA
Altro che aereo!  Il nostro ritorno è avvenuto su treni più o meno uguali a quelli del viaggio di andata. Attraverso paesi devastati e con le linee ferroviarie sconvolte dalle bombe quel viaggio sembrava non aver fine. A Mittenwald, in Austria, abbiamo subito la disinfestazione e siamo rimasti in quarantena alcuni giorni, dopodiché abbiamo attraversato il Brennero e finalmente siamo arrivati a Pescantina. Quindi, non senza commozione abbiamo salutato i nostri compagni d’avventura che erano diretti verso altre parti d’Italia e anche noi siamo ripartiti, verso casa, finalmente! La nostra tradotta è stata la prima a passare il Piave, ed ecco la stazione di Conegliano, era la sera del ventinove agosto 1945.
Avevano organizzato un punto di ristoro, per noi che tornavamo dalla prigionia. Un bicchiere di vino ed un panino a testa gratis però erano un po’ poco per festeggiare.
Così, racconta Antonio, ho deciso di spendere parte delle duecento lire che ero riuscito a tenere sempre con me in quei due anni di prigionia: eravamo  Dino, io, assieme ad Ernestro Piccin e Luigi Bortolini. Ho comprato un litro di vino, che ho pagato con un biglietto da cento lire. Mi ricordavo perfettamente come, un litro di vino, all’inizio della guerra costasse  quattro, cinque lire al massimo. Quando ho visto che l’oste non mi dava il resto ho chiesto ragione….mi ha risposto “guarda che ti ho fatto pagare cento lire perché so da dove vieni, adesso un litro di vino costa centoventi lire!” questo è stato il primo contatto con la realtà del dopoguerra: quella che prima era una bella somma, che avevo custodito con tanta cura, ora non valeva più niente. 
Siamo quindi ripartiti a piedi, verso Refrontolo, dove siamo giunti la mattina del 30 agosto. Il  primo incontro è stato col nostro commilitone Luciano Pase, che era con noi a Schio, di guardia alle poste, l’otto settembre ’43: a lui era andata molto meglio, qualcuno gli aveva dato abiti civili ed era riuscito a scappare e mettersi in salvo.

Dino ed Antonio non mi dicono molto del primo incontro con le famiglie e gli amici più cari, possiamo però immaginare fin troppo facilmente la gioia e l’emozione di quelle ore, dopo due anni d'angoscia; accennano solo ai grandi festeggiamenti a casa di parenti ed amici che non vedevano l’ora di ospitarli. Festeggiamenti che si sono protratti per parecchie settimane, mentre la vita di tutti i giorni lentamente ricominciava.

MAGGIO 2003
Siamo ritornati nei luoghi della nostra prigionia nell’estate di cinque anni fa.
I posti non li abbiamo quasi più riconosciuti: quelli che sessanta anni prima erano giovani alberi, piantati per mascherare la fabbrica contro l’osservazione aerea, oggi sono una rigogliosa foresta.  Ma di quella fabbrica non c’è più traccia e nemmeno delle baracche di legno dove dormivamo; cercando dei punti di riferimento abbiamo però riconosciuto il viale che portava ai bunker e le casette in muratura dove siamo stati alloggiati dall’ottobre ’44, le quali sono adesso diventate abitazioni per le famiglie.
Alle persone del paese è inutile chiedere: ormai anche quelli che potrebbero ricordare forse preferiscono non farlo, oggi, racconta Dino, mia figlia e la sua famiglia vivono e lavorano proprio da quelle parti.
Ci salutiamo che è già mezzanotte, in poco meno di tre ore ho rivissuto assieme a Dino ed Antonio quella che è stata l’esperienza più importante e drammatica della loro gioventù.
Volti e immagini di sessanta anni fa sono ancora oggi  ben presenti nei loro pensieri, tanto che pare  di sentirli davvero molto vicini.
Non c’è odio nei loro racconti, solo felicità per famiglia, gli amici, la pace ritrovata. Questo è stato sicuramente l’insegnamento più importante della loro storia.

Giuseppe Liessi

L’autore ringrazia per la collaborazione il sig. Denis Doimo, nipote di Dino Bianco


A margine di questa bellissima (soprattutto per l’esito finale) ed interessante storia si nota come l’autore dell’intervista entri quasi in simbiosi con i due intervistati tanto da avvicinarsi ancor di più alle vicende vissute così intensamente 60 anni fa. (R.S.)