Dopo un terremoto nulla è più come prima


Giugno 2016

Quando non lo trovi a casa, Arturo lo devi cercare nel vicino cimitero.
E infatti lo trovo lì, dove si reca ogni giorno a pregare per tutti, per i suoi, per quelli nella cui tomba, con il passare degli anni, nessuno porta più un fiore, per tutti i bambini che, come recita una lapide, il 6 maggio del ’76 rimasero bambini per sempre.
Allora per le vittime del terremoto non ci fu nemmeno tempo per la pietà, sepolte frettolosamente in una fossa comune segnata da numeri.
Ora riposano assieme in un piccolo complesso monumentale, su ogni lapide una sola data: quell’altra sarebbe superflua, perché sta scritta su tutte le pietre di questa città e ne farà parte per sempre della storia. Tutti assieme i componenti della sua famiglia: il papà, la mamma, la sorella e il nipotino Ivan, il più giovane delle 400 vittime di Gemona.
La vicenda di Arturo Virilli è scritta negli annali della Julia.
Alpino nella Goi, quella maledetta sera era in libera uscita e aveva appena salutato la sua famiglia, in quella casa che pochi minuti dopo sarebbe stata travolta dalla furia devastante dell’Orcolat (l’orco, come da quelle parti viene soprannominato il terremoto).
Quando giorni dopo gli proposero una licenza a tempo indeterminato, Arturo chiese di continuare la sua naia in caserma.
Non sa ancora perché lo fece. Forse perché non aveva più né una casa né una famiglia, forse perché non riusciva a togliersi dalla mente le immagini di quei militari sopra le macerie di casa sua e lui impietrito, incapace di agire… e ora voleva fare la sua parte per la sua gente, il suo Friuli.
Forse per non impazzire. Il vecchio Friuli. Quello che amava ricordare Padre Turoldo, fatto di paesi dove tutti si conoscono e in armonia vivono insieme e godono e piangono insieme.
Il paese che accompagna al cimitero insieme i suoi morti perché ogni volta è come se fosse uno dei tuoi che è morto.
Quelle icone in fondo ai paesi, quelle chiesette in mezzo alla campagna, quei campanili e castelli dallo stile così personale e nobile, vie di secoli e intreccio di civiltà, quei meravigliosi portoni ad arco obliquo, dignitosi come un portale di palazzo aperti sui cortili.
Quelle umili case di sassi di fiume legati dalla calce bagnata dal sudore di generazioni.
Immagini che tanti di noi hanno conosciuto e ci sono rimaste nel cuore.
E poi quei terribili 55 secondi, e la terra spaccata a morte da fessure fonde e scure, con l’inferno che cercava una via di uscita proprio tra quelle dolci colline.
Ora il Friuli è tornata bello, il duomo di Gemona e Venzone sono stati ricostruiti con le stesse pietre, a testimoniare l’ostinazione dei Friulani e i tristi cumuli di macerie sono un lontano ricordo.
Ma qualcosa è andato irrimediabilmente perduto, perché dopo un terremoto nulla è più come prima, e il Friuli, quel Friuli, non esiste più.
Troppe cose sono andate sepolte sotto quelle macerie.
Arturo mi dice che la gente non è più quella di una volta, per strada ci si saluta sempre meno, le persone si chiudono in casa, case blindate, protette da mura e cancelli inaccessibili e sorvegliati, oltre i quali sembra solo silenzio e nulla.
Il terremoto ha cambiato il Friuli e i Friulani, e anche la fisionomia della nostra associazione.
Dopo il terremoto da tutta Italia gli alpini si mossero verso quei luoghi che tanti conoscevano bene.
Fu una specie di adunata, prima spontanea e confusa poi organizzata.
E gli alpini andarono lì a “sporcarsi le mani” tra la polvere e le macerie, offrirono il loro lavoro in amicizia e fratellanza (anche la nostra Sezione fece la sua parte) inaugurando una nuova stagione.
Si dice che lì è nata la Protezione Civile degli alpini e da allora, quando c’è una emergenza e qualcuno chiama, loro ci sono.
E l’ANA non fu più quella di prima.
Perché dopo un terremoto nulla è come prima.

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