RICORDI DI NAJA 3


Dicembre 1999

All’arrivo "al Corpo" delle reclute del 5° sc. ’84 presso la Caserma "E. Fantina" di Pontebba (UD) non era difficile scorgerlo dal resto della comitiva.
Robusto, alto circa un metro e novantacinque, capelli radi, carnagione olivastra, occhi e volto scuri, era fra tutti nuovi arrivati, quello che aveva ricevuto di meno le "attenzioni", fatte di scherzi e di sfottò, dei "veci" ormai prossimi congedanti.
Ma Luca P. Non era del 5° sc. ’84, apparteneva al 2° sc. ’84 e rispetto all’età della ferma corrente di quell’annata era di 3 anni maggiore, Non era la scuola ad avere ritardato lo svolgimento del servizio militare e non era stato un corso frequentato al di fuori del nostro Battaglione Val Tagliamento, ad aver fatto posticipare la sua venuta a Pontebba.
Luca P. Di 22 anni, figlio di facoltosi frutticoltori della bassa veronese, era tossicodipendente da più di 6 anni ed i genitori cercando inoltre di evitare il disagio d’avere un figlio esentato dalla naja per "l’articolo", speravano che un anno passato nell’esercito l’avrebbero migliorato. Aveva avuto l’incarico di cannoniere il cui addestramento si svolgeva all’interno della nostra caserma.
Dopo qualche ora dal suo arrivo, scoprimmo il perché del suo ritardo: a parte qualche giorno di malattia e convalescenza, in pochi mesi di militare aveva "preso" un centinaio abbondante di giorni di giorni di consegna semplice e una sessantina di rigore e al CAR erano stati indecisi se mandarlo a Pontebba o no.
Radio naja addirittura vociferava che Luca P. Avesse rincorso, durante l’addestramento a Codroipo, il proprio ufficiale di plotone con una baionetta di Garand.
Queste illazioni, nel nostro piccolo reparto, che contava la massimo 130/140 effettivi, avevano suscitato diversi stati d’animo.
La maggioranza costituita dai tranquilli, i cosiddetti bravi ragazzi, era un po’ intimorita dal personaggio, in special modo i più "topi", cioè i più giovani di naja.
Gli altri, forse una quindicina, quelli che si trovavano quotidianamente negli angoli e negli anfratti più nascosti a rovinarsi la vita con stupefacenti ed allucinogeni, gioivano al pensiero d’aver trovato un tipo così carismatico per il loro giochi fatti di intimidazione e nonnismo.
Era già mezza estate ed io, che tra l’altro ero caporale maggiore e avevo circa 8/9 mesi di servizio militare, diffidavo un po’ del soggetto, che nei miei confronti si dimostrato fin troppo ossequioso e generoso, quasi volesse accattivarsi la mia benevolenza.
Di lì a poco colsi, mio malgrado, le varie sfaccettature di una personalità veramente contorta.
Nel mentre d’una manovra operativa, che per alcuni giorni tenne impegnata buona parte degli effettivi delle due compagnie, la cronica mancanza di persone abilitate ai servizi armati, fece in modo che Luca P. fosse inserito nella muta di guardie che controllava i magazzini e le armerie dell’adiacente caserma "Zambon" che, danneggiata totalmente la palazzina truppa dall’infausto terremoto del 1976, fungeva da deposito per il nostro distaccamento.
Da noi, i caporalmaggiori, con una fascia coi baffi dorati al braccio, esplicavano al funzione di sott’ufficiale d’ispezione responsabile del servizio di guardia alla suddetta Zambon.
Ero appena entrato in servizio nel primo pomeriggio e dopo il rancio serale me ne stavo tranquillo nella mia stanzetta aspettando il memento per il giro di controllo. Verso le 23, venni richiamato dalle urla veementi e fragorose del capoposto. Luca P. in servizio di guardia in quel momento, ansimante e singhiozzante, era appollaiato su un albero con le sue lunghe leve da trampoliere e il Garand con il colpo in canna senza sicura. A tratti piangeva, a tratti farneticava di improbabili visioni notturne, suggestionato magari dai rumori o da qualche riflesso di luce provenienti dal vicino scalo merci della stazione di Pontebba.
Non voleva saperne di scendere dall’albero, non si fidava diceva, girando lo sguardo ed il Garand tutto intorno, come se fosse su una torretta di guardia. Mi ci vollero almeno venti minuti per convincerlo a consegnarmi l’arma, nel frattempo era arrivato l’ufficiale di giornata che avevo fatto chiamare da una guardia.
Feci scaricare l’arma dal capoposto. Luca P., finalmente piangendo, se ne scese, mi abbracciò con forza con un figlio fa con un padre. Ci mettemmo a parlare per alcune ore, mi spiegò tutti i suoi problemi passati e presenti. Sembrava sincero e io gli tesi la mano cercando di capirlo. La mattina dopo con una certa risolutezza imposi alla fureria di toglierlo dai servizi armati, facendo presente il rischio corso la sera prima.
Per alcune settimane tutto scivolò via nella più apparente tranquillità. Un sabato sera, però, salendo le scale che portavano alle camerate della mia compagnia udii delle grida e dei rumori. Luca P. assieme ad altri tre balordi con una spranga avevano infranto vetri e sfondato porte, picchiato chi in quel momento per caso si trovava sulla loro strada.
Sperando di ricevere ascolto, mi avvicinai chiedendogli cosa fosse successo, per tutta risposta mi spinse contro la parete del corridoio e mi fissò con fare minaccioso. Pur con notevole timore mi rialzai e lo fissai a mia volta sfidandolo.
Mi ringhiò parole irripetibili, mentre un filo di bava scendeva dalla sua bocca.
Se ne andò verso le scale che portavano verso l’altra compagnia gridando insulti a destra e a manca.
Nel corso della notte, dopo aver fatto altri danni, venne bloccato, non prima comunque d’aver picchiato un sottotenente.
Al mattino una pattuglia di Carabinieri lo portò via. Di lui non si seppe più niente.
Questa storia mi lasciò una grande amarezza. Provai una umana pietà per Luca P. e imparai che cercare di far del bene non implica necessariamente successiva riconoscenza

Renzo Sossai