70 ANNI DI VITA


Giugno 1995

INIZIATIVA APPREZZATA.
NUTRITA PRESENZA DI VISITATORI A PALAZZO MONTALBAN

MOSTRA STORICA SUGLI ALPINI

Nell'ambito delle celebrazioni per il 70° della Sezione, grande risalto ha avuto la mostra storica sugli Alpini. L'allestimento nel salone di Palazzo Montalban è stato curato da tre noti esperti del settore, nonché ricercatori meticolosi ed appassionati collezionisti: Luciano Barzotto, Roberto Semenzin e Remo Buosi. La mostra ha aperto una finestra sul panorama del costume militare alpino di più epoche. L'immagine che ne è scaturita non è solo quella del soldato valoroso e tenace ma anche di colui che ha saputo dimostrare in ogni occasione, nelle drammatiche vicende belliche come nelle quotidiane attività di servizio a favore della comunità quello spirito di sacrificio e quella carica di umanità che lo hanno fatto conoscere ed ammirare in tutto il mondo. Alla presenza di autorità civili e militari la mostra è stata inaugurata dalla signora Reginato, moglie del Generale Enrico Reginato, medaglia d'oro al valor militare. Al taglio del nastro i convenuti sono stati accolti nel salone dell'esposizione dalle suggestive e toccanti note di “Sul Ponte di Perati” del Coro Alpino di San Vendemiano, diretto dal maestro Mazzer Fiorenzo. Roberto Semenzin ha quindi illustrato ai presenti le varie sezioni della mostra. Unica nel suo genere, la mostra storica ha attirato numerosi visitatori e sarà recensita da una rivista del settore. Sono state presentate diverse divise da combattimento, offrendo al visitatore un quadro completo dell'evoluzione dell'abbigliamento delle truppe alpine italiane ed evidenziando il contrasto tra le vecchie uniformi, talora scomode e sgraziate, e quelle più recenti, pratiche e non prive a volte di una certa eleganza. Nel contempo è stata narrata la tragedia della guerra. Emblematica a riguardo la divisa del Battaglione “Monte Cervino”, un capo che non sfigurerebbe per la sua eleganza in una boutique del centro della nostra città. Ma, quella scritta da questa unità è una delle pagine più tristi degli alpini. Il Battaglione “Monte Cervino” fu costituito ad Aosta nel 1940 con forza di 350 uomini, tutti sciatori equipaggiati di tute mimetiche bianche con le migliori soluzione dell'epoca tra cui gli scarponi con la suola in gomma “vibram”. Inviato sul fronte greco-albanese nel gennaio del ‘41, un mese dopo non esisteva più: ad Aosta rientrarono 37 superstiti in tutto. Fu ricostituito nel novembre dello stesso anno, più bello di prima. Sottoposto ad un durissimo addestramento fu inviato sul fronte russo: questa volta ritornarono in 5, un capitano e 4 alpini. Per l'enorme sacrificio sostenuto ed il valore dimostrato sul campo di battaglia, il “"Cervino” fu poi decorato di medaglia d'oro al valor militare. Tra i pezzi rari dell'esposizione l'elmo e la corazza “Farina”, di cui erano equipaggiati i guastatori. Una Circolare del comando supremo del giugno 1915 decretava la costituzione di squadre di soldati selezionati incaricati di distruggere i reticolati che ostacolavano l'assalto della fanteria. Erano nate cosi le “Compagnie della morte”. Collaudate al tiro del nostro fucile mod. 91, le corazze risultarono perforabilissime ai calibri austriaci. E fu massacro. Di grande effetto la ricostruzione della tragica ritirata dal fronte russo, con gli alpini che non abbandonano il compagno ferito sulla slitta e si sostituiscono nella tormenta all'inseparabile mulo che orinai serve solo per cibo ad altri sventurati. Per i reparti che erano riusciti a spezzare la tenaglia delle annate russe e a sopravvivere alle fatiche, alla fame e alle malattie, il nemico peggiore divenne il gelo delle steppe, che divorava mani e piedi. Gli scarponcelli di cuoio scadente dei nostri alpini si inzuppavano come stracci quando pioveva e quando gelavano diventavano di legno. La suola, fitta di chiodi, trasmetteva ottimamente la temperatura esterna alla pianta del piede. I “Valenti”, stivali di feltro caldi e leggeri, erano quindi molto ricercati dai soldati italiani, rumeni ed ungheresi, inadeguatamente equipaggiati per il rigido inverno russo. Più di qualcuno deve la propria vita al fatto di essersi procurato i “Valenki” da qualche caduto o prigioniero sovietico. Quelli esposti alla mostra appartenevano all'alpino Lino Salini di Bedonia (Parma) del Battaglione Tolmezzo. Li consegnò anni fa a Guido Aviani, direttore del Museo storico del Tempio di Cargnacco, dedicato agli Italiani caduti sul fronte russo, confessando in lacrime che quei “Valenki” avevano salvato durante la ritirata.
Di notevole interesse la documentazione fotografica, proveniente da collezioni private e per la maggior parte inedita. L'istantanea che riprende il generale Garibaldi in visita ad un ordinato ospedale militare è vera, ma è falsa l'impressione di una normalità assistenziale che essa vorrebbe trasmettere: in realtà centinaia di combattenti morirono tra i grovigli di filo spinato nell'inutile attesa di un qualunque soccorso. E la rovinosa ritirata in terra sovietica fu solo l'inizio: quello del rientro per molti fu un ulteriore dramma, più vasto di quello della guerra e della disfatta. La gioia di tornare a casa, di essere usciti vivi da quell'inferno di fuoco e di ghiaccio, fu accompagnata, per gli alpini, da amarezze, delusioni e qualche volta anche vergogna. Chi era disceso festante dal treno, al confine, per sentire ancora una volta sotto i piedi la terra natale, fu fatto risalire in fretta, chiusi gli sportelli e rialzati i finestrini. Nessuno doveva vedere gli alpini: le divise lacere, gli scarponi sfondati, infestati dai pidocchi, malati di dissenteria, sporchi e malmessi, provocavano ribrezzo. Le vere dimensioni del disastro si ebbero solo a rientro ultimato: per portare gli alpini della Julia in Russia erano stati impiegati oltre duecento convogli, per riportarli casa ne bastarono diciassette!
La mostra ha voluto essere quindi anche un omaggio alla memoria di tutti gli uomini semplici che, indipendentemente dalla loro volontà, hanno vissuto l'immensa tragedia della guerra, certi che la memoria della guerra è la miglior propaganda della pace e della fratellanza che nessuna società storica è mai sopravvissuta all'indifferenza per ciò che è stato.

Gianfranco Dal Mas

LUCIANO BARZOTTO

Della guerra non si studiano più solo le battaglie e i generali. Di essa ci si chiede ormai da tempo come la vissero, materialmente e psicologicamente, civili e soldati, le anonime masse del fronte e delle retrovie. Come era la vita quotidiana nelle trincee, e come quella di chi restava in città o nelle campagne, a ridosso o lontano dalle zone di guerra.
Luciano Barzotto, alpino del gruppo San Fior, è un cultore di tali testimonianze. Assiduo ricercatore, esperto collezionista e profondo conoscitore delle due guerre, ed in particolar modo delle vicenda storica del Corpo degli Alpini, la sua perizia in materia è frutto sia dello studio dei documenti ufficiali che della conoscenza acquisita attraverso numerose testimonianze orali dei superstiti. Nella sua taverna, trasformata in museo, numerosi i pezzi unici, tra i quali l'altare da campo di un cappellano militare della prima guerra mondiale e un pellicciotto da scolta del regio esercito, datato 1917. Nutrita la raccolta di lettere inviate da soldati al fronte o da prigionieri nei lager: nella loro inconsapevole violenza alla lingua italiana, questi documenti, a volte tristi e struggenti, sono frammenti importanti per capire certi aspetti della guerra. Ricca anche la collezione di elmetti delle varie nazionalità: Barzotto ricorda che finita la guerra essi diventarono “pitèri” per i gerani oppure, forniti di lungo manico, colatoi per il letame. Erano diversi come foggia e capacità ma il nonno li cedeva ai contadini tutti allo stesso prezzo: un fiasco di vino! Ogni recupero di testimonianze assume il significato di servizio reso alla conoscenza per le più fresche schiere di cittadini. Ma quella della collezione Barzotto è anche una storia di aste, di trattative estenuanti, di falsi, falsari, profittatori e cifre esorbitanti. Alcuni pezzi però gli sono stati ceduti gratuitamente: per ciò che significavano, essi non potevano avere un prezzo.

G.D.M.