GIULIO BEDESCHI


Giugno 1991

E morto anche Giulio Bedeschi

Il medico reduce di Russia, autore di “Centomila gavette di ghiaccio” e di “Il peso dello zaino”

Giulio Bedeschi, ufficiale alpino, medico e scrittore ci ha lasciati silenziosamente, quasi appartato, come tanti altri nostri amici alpini.
Il sonno eterno lo ha rapito durante un assopimento pomeridiano, quando era stato colpito dall’ influenza.
Si dice che quando “sorella” morte giunge improvvisa è una “fortuna”, perché non soffri..., e tanta gente se lo augura. Però questo modo di lasciare il mondo fa riflettere, perchè implica uno stato d’animo sereno, una condizione della coscienza legata al proprio credo, ideata sull’etica morale, che ci permettono di accettare il trapasso, senza suscitare solerti preoccupazioni.
Io credo che l’Alpino Giulio Bedeschi fosse conscio di questo e che ora riposi nella pace dei giusti, tra quelle Montagne che egli aveva tanto amato.
Ricordo quando, il 15 maggio 1981, venne a Conegliano, e che nell’Auditorium Fenzi presentò serenamente ed all’abilmente le sue due opere letterarie: “Centomila gavette di ghiaccio” - che racchiude la tragica odissea degli Alpini in Russia e che l’editore francese Robert Lafffon così presentò: “... è più che un grande libro di guerra è un’esaltante testimonianza sull’onore di essere uomo” - e Il peso dello zaino” che ne è il suo necessario complemento. In quella circostanza Bedeschi non nascose un senso di afflizione al pensiero di quei terribili anni di indescrivibile sofferenza, di quegli uomini semplici, dalle diverse culture ed estrazioni politiche e confessionali, ma tutti accomunati nelrunica speranza di sopravvivenza, mentre erano attanagliati dal gelo, dalla fame e dalla disperazione.
Sfogliando il libro “Il peso dello zaino” il mio sguardo si è fermato a pagina 95, dove Bedeschi riporta uno sconvolgente dialogo tra due ufficiali:
Il problema è un altro - si decise dire Reitani.
In apparenza può sembrare che noi si voglia essere accaniti sostenitori della guerra per la guerra, perché facciamo fino all’estremo il nostro dovere di soldati; io per primo, per quanto mi riguarda.
Ma in effetti nessuno più di noi constata che maledizione sia la guerra.
E dover comandare di uccidere, raddoppia l’orrore.
Se per giunta senti che ti viene a mancare il consenso di tutti, ti avvii verso la disperazione.
— Adesso sì, ti ritrovo - disse Serri
- e questo fa parte del sacrificio che viene chiesto a noi soldati.
Rischiare la pelle è ancora di meno.
Siamo dentro nell’ingranaggio, finché gira bisogna tener duro; è tutto il mondo che gira così, ne tu ne io possiamo fermano.
— Bel risultato!
— Liberare l’uomo dalla guerra.
È un genere di libertà che nessuno sostiene.
Sembra una utopia.
Eppure, a pensarci, senza questa ogni altra libertà resta precaria.
Questa le travolge tutte, cominciando dalla libertà di vivere...”.
La riportata conversazione mette in evidenza lo stato d’animo di quegli uomini-soldati, la tragicità della guerra, e la crudele realtà di un dramma umano, che, soprattutto oggi, sono motivo di grande inquietudine, che provocano ricorrenti manifestazioni più o meno pacifistiche, nei controversi movimenti etici mondiali.
R.B.


Due, tre colpi di clacson, e Toni che si affaccia dal finestrino dell'auto per dirmi: “Gatu sentio?... Xe morto anca Bedeschi...”
La voce gli grippa un poco, come ieri, di fronte a Livio Zava: “Desso no podemo pi malarse... i e morti tuti!”
Tutti: Giulio Salvadoretti, Enrico Reginato, Giorgio Sacconi, Livio Zava, Giulio Bedeschi... medici, ma soprattutto Medici Alpini.
Non so fino a che punto qualcuno dei boce possa capire quella voce che grippa, quel drastico “i xe morti tuti”, ma vorrei che riuscissero a sapere il perché di un’emozione a stento repressa, il senso di vuoto che ti prende quando pensi a Loro, che sono andati avanti, a raggiungere i molti che hanno lasciato in terra russa e altrove.
Ha detto uno dei celebranti, durante la cerimonia funebre di Zava, che i medici sono un po’ dei sacerdoti - del corpo, in questo caso.
E, come i preti - uomini - possono essere stati più o meno bravi, possono avere vissuto più o meno la loro vocazione.
Certamente sono fra gli uomini che, per scelta, sono deputati a vivere accanto alla sofferenza e per questo cogli in taluni quel tanto in più che te li rende cari; e se hanno anche quella loro storia alpina alle spalle, dirò preziosi.
Essi sono stati in varia misura e con diverso carattere dei testimoni
di una sofferenza immane, mai sopita in chi ha vissuto quella tragedia bianca.
Testimoni della propria e dell’altrui sofferenza - del fisico, della mente e dell’animo - della propria e dell’altrui debolezza e disperazione, di tanti lasciarsi andare e di tanti ineluttabili abbandoni...
Ed in varia misura e con diverso carattere ce l’hanno ricordato, nella lettera, nella parola, nel silenzio.
La loro partenza di questo ci lascia più poveri: appunto di quella testimonianza viva, che si trasmetteva agli altri anche e perfino nel racconto vivacissimo di Giulio Salvadoretti, che per gli amici sapeva mutare in riso i ricordi che evocava a se stesso prima che a tutti gli ascoltatori.
Si, abbiamo riso al suo narrare, ma per sentire poi di più, dentro di
noi, il peso di quell’approccio,
scanzonato e dissacratore nei modi, più tragico ancora nella sostanza di questa rivisitazione - a scoppio ritardato profondamente inquietante.
Cosi come abbiamo divorato in
una notte le pagine di “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi; o vissuto giorno dopo giorno la disperata lotta nei campi di concentramento russi, dolorosamente percorrendo il libro di Enrico Reginato.
Altri hanno sentito la voce di Giorgio Sacconi o quella di Livio Zava, come ha ricordato ieri il sacerdote...
E qualche volta ci è stato dato di cogliere il silenzio improvviso, il repentino allontanarsi da noi di chi ci parlava, e non era più lì; abbiamo visto l’occhio per un attimo perdersi in una vastità o in profondità che non conosceremo mai.
Non abbiamo sentito il cambio di pulsazione del cuore, ma possiamo giurare che c’è stato, atroce...
E quell’andare fulmineo via da noi ci ha detto tutto.
Adesso Li hanno ritrovati tutti, quelli che hanno lasciato lungo quell’infinita strada bianca, in quel gelo che li ha fatti rabbrividire per tutta la vita.
In un’isba, forse, ma accogliente stavolta e riscaldata anche dall’abbraccio di tanti amici “andati avanti”, per Loro sempre e solo ieri.
Per noi, oggi, il freddo si è fatto invece più acuto, più alto il silenzio.
C.F.