IL «MIO» CAPITANO


Giugno 1986


Escursioni invernali 1984, martedì 28 febbraio.
«A Prato Spilla nel villaggio di neve,  postazione
di mortaio da 120 mm con il capitano Lunardon».

Il ragazzone, un tipo grande e grosso, tanto goffo quanto simpatico, si fermò sulla soglia a salutare mia madre. Partiva militare tra pochi giorni, ed era passato a salutare l’amico di tante braciolate e bevute in allegria. Una pacca sulla spalla e lo feci entrare. Il discorso, aiutato da un bicchiere di quello buono, scivolò presto sui miei ricordi di artigliere da montagna, e mi sentii vecchio all’improvviso: era buffo ... io che avevo deriso i vecchi che raccontavano le loro gesta passate, mi trovavo a fare la stessa cosa, con un coetaneo per giunta. Ma forse era proprio la mancata differenza di età a farmi sentire vecchio, anzi, «massa vecio», dentro.
La domanda gli venne spontanea, ma a me stridette non poco, dato che nessuno prima me l’aveva mai chiesto; voleva vedere il mio cappello d’alpino.
Salimmo le scale della soffitta. Se ricordavo bene doveva essere là, vicino al vecchio mappamondo, in un grande armadio.
La porta fece fatica ad aprirsi, gelosa di ciò che custodiva dal giorno del mio congedo.
Non fu il mio cappello che vidi per primo, ma quello di mio padre, un omone brontolone che al suo tempo era ufficiale degli alpini, istruttore sulle armi da accompagnamento.
La penna d’aquila sembrava soffrisse la mancanza di aria e di neve, non a suo agio nella teca che la proteggeva un po’ storta, come si addice a un vecchio eroe che ne ha viste tante. Eccolo il mio, protetto dal cellophane, il feltro più vivo del vicino più anziano, ma coi segni evidenti che chi lo ha portato lo ha guadagnato.
Nel togliere il cellophane la penna ebbe come un fremito, un brivido che le corse lungo la costa fino alla nappina. Lo rigirai con orgoglio tra le mani, pensai alla derisione dei miei «Frà» che avevano addobbato il loro con fronzoli, tricolori, scritte e altre porcherie, e da ultimo con quelle penne lunghissime e imbrillantate. Il mio invece, io l’avevo tenuto com’ era, non lo avevo modificato per nulla, solo i vecchi gradi da caporal maggiore e lo stemma del gruppo «Belluno» facevano bella mostra di sé infilati nel risvolto.
Lo rigirai nuovamente tra le mani con malcelato orgoglio e vidi nello sguardo del caro amico un lampo d’invidia bonaria, che uscì nella consueta frase «beato te che l’hai finita».
Non ebbi il coraggio di dirgli che la naja che avevo fatto per me non è mai finita: è una parte di me che affiora prepotente, un torrente simile al « Brenta », nome che il mio capitano dava al fiumiciattolo che radeva la caserma dal lato delle cucine fino alle scuderie.
Il mio capitano, un uomo grosso e tarchiato, la pelle di cuoio solcata da profonde rughe che appaiono e scompaiono sotto il frontino della norvegese: ho passato tutta la naja con lui, un rapporto di stima reciproca, di mia ammirazione, per quell’uomo che incuteva timore reverenziale a tutti
Superiori inclusi. Devo a lui ciò che so sui muli, suo grande amore. Il «Duro», così era il soprannome che si era guadagnato, mi scrollò con voluta «durezza» da eccessivi voli teorici, come da studente qual’ero sempre stato, ero abituato a fare. Senso pratico, rapidità di esecuzione, inventiva manuale, poche ciance per dirla breve.
Non era più necessario dopo un po’ che ero ai suoi ordini che mi dicesse niente, capivo al volo ciò che avrebbe voluto, ed ero fiero di ciò.
L’ unica cosa che mi sfuggiva di lui era l’aspetto umano; mi spiego: militarmente parlando era chiaro, semplice, non c’era nessun mistero o ombra in ciò che distingueva il capitano. Ma l’uomo? Cos’era l’uomo?
La risposta arrivò, non definitiva ovviamente, durante un campo in Piemonte; il gruppo svolgeva le proprie operazioni nei dintorni di Prato Spilla e della Val Maura.
Dormivamo in un vecchio capannone: fuori e dentro un freddo umido che infastidiva uomini e animali.
La neve, caduta abbondante rendeva difficile gli spostamenti. Ma come sempre negli alpini, non è retorica la mia, era anche un’amica che rendeva il paesaggio più simile a quello di casa.
Ma con il maltempo venne anche una epidemia d’influenza che non badava certo ai gradi sulla giubba, per colpire. Le tre stelle che portava non salvarono il mio capitano, che già provato da una brutta tosse ricevette il colpo di grazia.
Lo stupore tra i ragazzi era diffuso: il «duro», colui che non si fermava davanti a nulla e a nessuno era stato steso da una influenza.
La sera, dopo aver dato una rapida scorsa alla tabella dei servizi, mi avviai con passo svelto verso il lungo ponte che univa le due sponde della valletta, collegando le quattro case e il capannone a una locanda ove il nostro comandante e gli altri ufficiali alloggiavano.
Prima di passare il ponte presi a destra per dare un’occhiata all’improvvisata scuderia sotto il ponte. Il capo muta, un caporale piccolo e svelto mi venne incontro con la norvegese bianca di neve.
Ci sedemmo sotto la tenda foraggi su alcune balle di paglia, bevendo una bustina di cordiale dopo averlo scaldato poggiandolo sul palmo e premendo col taglio dell’altra mano, facendo scorrere il liquido da un capo all’altro della bustina di plastica.
Voci concitate ci distolsero dal parlare della ragazza vista il giorno prima nel paese vicino: un mulo aveva divelto l’ultimo palo che sosteneva tesa la corda d’ acciaio cui erano legati i muli per la catena. Sfilato l’anello il mulo ora correva per il torrente sottostante, caricando tutti coloro che gli si paravano innanzi. Ci avvicinammo tranquillamente, e mentre gli offrivo una galletta con tono pacato gli presi la catena dolcemente, rassicurandolo con una leggera grattatina dietro le orecchie. Senza fare altro, tornò al filo docile e si fece legare. Augurai la buonanotte e dissi di levare la neve accumulata sulla tettoia fatta di teli-tenda, tesi dal gran peso.
Mi allontanai velocemente mentre riprendeva a nevicare. A metà del ponte incontrai una dozzina di conducenti che cantavano e ti tiravano palle di neve. Alla mia altezza si levò un «notte maggiore!» che mi fece sorridere: sapevano che odiavo farmi chiamare maggiore o caporale o ambedue, eppoi se lo avesse sentito un ufficiale penso non sarebbe stato molto salutare.
Risposi con un «filate in branda» e schivai una bordata di proiettili bianchi.
Il caldo della locanda m’in- vestì subito, appannandomi gli occhiali, che tolsi prontamente. Faceva freddo fuori, pensai. Il pesante maglione di lana s’incollava sulle spalle e rivoli di sudore colarono veloci lungo la schiena.
Seduti ai tavoli tutti vestiti uguali sembravano un unico mare verde, schiamazzante, ridancioso, in perenne movimento. Quel mare caldo, luccicante di occhi umidi per il vino, quei visi abbronzati di sbarbati e veci, «tubi» e «nonni» erano il mondo cui appartenevo. Mi salutarono vociando e venti bicchieri colmi di un rosso più pallido del loro naso mi giunsero da ogni parte, con un coro di inviti a bere. Ne vuotai uno a caso e feci cenno che sarei tornato dopo.
Mi avvicinai al padrone del locale, un tipo simpatico e servizievole e chiesi come stava il mio capitano. «Devo portargli su una scodella di latte e grappa adesso, ma sta meglio». Mi feci dare il latte fumante e la ragazza con un sorriso mi accompagnò fin sui retro, dove iniziavano le scale di legno, ripide e consumate che portavano ai piani superiori. Un altro sorriso malizioso mi accompagnò mentre salivo quei gradini, badando a non rovesciare il prezioso liquido.
Giunto nel corridoio mi bloccai di fronte al colonnello che usciva dalla stanza del capitano, accompagnato dagli altri ufficia
li. Scattai sull’attenti, anzi era più un buffo presentat’armi con la scodella in mano. Un rivolo di latte bollente schizzò lungo il dorso della mano. Un accomodante «riposo» giunse in tempo per asciugare quella bava calda.
«Bravo Pagot» disse il comandante «vedo che sei affezionato al tuo capitano eh ?» Ringraziai l’abbronzatura che non svelò il mio arrossire. Una pacca sulla spalla rischiò di far rovesciare quel povero latte.
Salutai nuovamente come potevo e li vidi scendere le scale. Mentre mi avvicinavo alla camera sentii dabbasso il rumore di tavoli e sedie spostati velocemente da un attenti generale.
La porta era socchiusa: bussai discretamente. L’e avanti » giunse roco, ma deciso come sempre.
Non scorderò mai l’espressione soddisfatta del « Duro » quando mi vide. Bevve il latte senza dare a vedere che scottava.
Era la prima volta che lo vedevo senza i gradi addosso. Questo mi fece uno strano effetto:
notai infatti che contrariamente a ciò che avrei potuto immaginare egli restava sempre il capitano. Le aveva stampate sulla pelle quelle stelle. Credeva in ciò che faceva, l’esercito, Gli alpini soprattutto li aveva nel sangue, la barba era lichene forte che amava il gelo. Gli occhi, piccoli, ma penetranti, verde chiaro con una vena rossa nel bianco erano un Tricolore eloquente. Per lui non c’era differenza alcuna nel suo mondo: il suo mondo era u
sulla e chiaro, i muli, gli uomini, la montagna. Il rispetto per quell’uomo-capitano si accrebbe ancora di più, immagine vivace di una coerenza testarda e fiera, convinto di ciò che faceva sempre e ovunque.
Il modo con cui trattava i muli era quello di un padre esigente e severo con dei figli irrequieti e cocciuti, ma servizievoli al momento opportuno.
Il suo passo, il modo di Calcarsi in testa la norvegese, con un gesto unico e calcolato, il modo di dare gli ordini, secco e preciso. Mai ingiusto, sempre alzato prima degli altri, allergico alle carte e ai timbri, a suo agio tra i monti coi suoi uomini e i suoi muli.
Pronto a fare una battuta per tirar su il morale. Inflessibile nel punire se occorreva. Ma la sua punizione non occorreva venisse trascritta sull’ordine del giorno o sulla tabella dei puniti. Chi aveva ricevuto il suo terribile «Stai punito!» si autopuniva, mortificandosi e giurando di non sbagliare di nuovo.
Non l’ho mai visto punire due volte di seguito la stessa persona, perché nessuno sbagliava con lui una seconda volta.
«Posso toccarlo un attimo?» La domanda giunse lontana eppure tremendamente presente. Sparì il capitano, la locanda, il ponte, i muli. Restò invece tra le mani il mio cappello. «Allora, posso?» Chiese nuovamente quel ragazzone allampanato che di lì a pochi giorni sarebbe partito alpino. «Che cosè ?» chiesi. «Il cappello posso...?» Sorrisi mentre lo rimettevo nel cellophane, «No», dissi «scotta, ti bruceresti le dita». Il mio amico capì e sorridendo mi aiutò a richiudere l’anta dell’armadio che non voleva sentirne di trattenere al buio quei ricordi d’alpino.
Scendendo le scale gli battei la mano sulla spalla e ripetei che il cappello scottava troppo per lui, lo avrebbe toccato quando anche lui avesse finito.
Scotta, ripetei tra me, come quel latte e grappa.

C.M. FRANCESCO PAGOT