VAL PIAVE


Dicembre 1970

Vita vissuta col Battaglione «Val Piave»

Sono stato a trovare il nostro socio Giovanni Casagrande nella sua casa a sud di Conegliano, ma il nostro buon vecio — 76 anni compiuti — era al lavoro col figlio nel suo vigneto coltivato con tanta passione e bravura da sembrare un grande e piacevolissimo giardino. Il comm. Curto, nostro presidente, me ne aveva parlato più volte e finalmente mi decisi a proporgli di raccontare, per i nostri lettori, alcuni episodi della sua intensa vita militare.
Dalla sua mente lucidissima sono scaturiti i ricordi qui descritti, o, più precisamente, una parte di essi in quanto Giovanni ha voluto tralasciare alcuni salienti particolari riguardanti il suo provato valore.
E’ quindi doveroso ricordare che, per un episodio che è pure accennato nella narrazione ma che non precisiamo per evitare individuazioni, i superiori comandi determinarono un certo quantitativo di ricompense. A giudizio del comandante del reparto la più elevata decorazione assegnabile per quel fatto d’arme sarebbe spettata proprio a Giovanni Casagrande che era quindi proponibile per la medaglia d’argento al valore militare.
Ma Giovanni aveva visto combattere e valorosamente morire tanti suoi amici fraterni e tra questi un giovane caporale della nostra provincia — figlio unico — alla mamma del quale sarebbe stato di notevole conforto quel segno di riconoscenza della Patria; le decorazioni erano d’altronde «razionate» e non erano consentite delle «giunte». Casagrande preferì che il riconoscimento andasse al suo sventurato caporalino il quale l’aveva comunque meritato.
Un mese e mezzo più tardi, in un bosco delle retrovie, si svolse la cerimonia della consegna delle decorazioni. Alcune a caduti del 54° fanteria (una compagnia dei quale era rimasta con un solo uomo) e le altre ai nostri alpini: qualche avanzamento di grado, e la medaglia di argento che la mamma dell’accennato caduto venne a ricevere dopo la visita alla tomba del suo unico figlio e che — appuntata sul petto — parve lenire il grande dolore del cuore sul quale ora appoggiava.
Lascio ora la parola a Giovanni Casagrande, ringraziandolo per averci riservato parte dei suoi ricordi e del suo tempo per descriverli. Giovanni infatti — nostro buon alpino senza medaglia d’argento ma col cuore d’oro ha da lavorare, e il suo è un lavoro che non consente il pensionamento anticipato previsto dalla recente legge per i combattenti dell’ultima guerra e che dipendono da enti pubblici.
Qualcuno mi dirà che Casagrande avrà ben la pensione di ex combattente della guerra 1915-18.
No, nemmeno quella e non gli è ancora arrivata neanche la croce di cavaliere di Vittorio Veneto. In base a tanti fatti evidenti, risulta che agli ex soldati austriaci (quelli che poi sono diventati «italiani», che magari hanno poi optato per il «grande Reich» e che sono successivamente ridiventati «italiani») han già dato pensione ed altro; poi la croce di cavaliere è stata fin dal primo giorno conferita a coloro che sono più in vista nelle cariche pubbliche ma che il nemico non l’han magari visto neanche col binocolo, poi a quelli che hanno dimestichezza con gli articoli della legge di concessione e godono di appoggi extracombattentistici, e infine — con tutta calma — ai più umili che la guerra l’han fatta davvero.
Forse — come pure per molti nostri soci — è a questo che sta pensando Giovanni Cara grande, mentre lo vedo tornare al lavoro nella sua vigna ricolma di grappoli d’oro: il riconoscimento che il cielo gli ha elargito anche quest’anno per il suo interminabile lavoro.
M.A.

Quando — nel febbraio del 1915 — venni chiamato alle armi. con la mia classe (il 1894) si stava attuando, anche presso il 7° Alpini, la costituzione dei battaglioni «Valle»; io sono nato ad una spanna dal Piave e la mia assegnazione al Battaglione «Val Piave» mi apparve subito di buon auspicio.
Il 24 maggio, quando il comando del battaglione venne assunto dal ten. col. Antonio Gioppi, io mi trovavo a Misurina ove ero arrivato undici giorni prima con la mia 267a compagnia e con la 268a, in servizio di vigilanza in Val Bona e in Val Popera, spostandoci poi in Val dell’ Acqua e a Monte Cengia per ritornare infine a Misurina dove occorreva effettuare dei lavori di fortificazione ed aiutare a piazzare le artiglierie di una batteria del 3° Montagna.
Ancor prima dell’annuncio ufficiale della dichiarazione di guerra gli austriaci, bene organizzati nei forti del Rautkofel, iniziarono a bombardare le posizioni tenute dalla 67a compagnia del battaglione «Cadore», continuando fino alla mattina del 25 maggio quando la nostra 58a batteria iniziò a controbattere distruggendo, tra l’altro, il rifugio delle Tre Cime di Lavaredo che costituiva un troppo comodo osservatorio per il nemico.
L’intenso fuoco delle artiglierie avversarie riprese il mattino successivo per preparare l’avanzata verso Forcella Lavaredo e Forcella Passaporto che si verificò infatti con grave pericolo per gli alpini che occupavano la Cima Piccola. Verso sera il battaglione «Cadore» riuscì a riprendere Forcella Passaporto, e il 29 maggio anche il Monte Paterno venne occupato.
Le perdite austriache furono rilevanti fin dai primi giorni. Ricordo che avanzavano in massa e ai loro morti e feriti legavano una cinghia ad una caviglia trascinandoli prontamente indietro per evitare che gli altri loro combattenti venissero presi dal panico; riuscirono comunque ad occupare alcune posizioni quando si esaurì lo scarso munizionamento dei nostri presidi; anche alcuni pezzi, ai quali vennero sottratti gli otturatori, rimasero in mano nemica.
Il contrattacco di due plotoni della nostra 267a compagnia — rafforzati dalla 75° del battaglione «Cadore» e al comando del capitano Gatto — riuscì a rioccupare le altre posizioni respingendo gli austriaci sul Sexten Stein; recuperammo anche i cannoni abbandonati il giorno precedente e che vennero prontamente riattivati.
Fu in questo episodio del 26 maggio che un austriaco era riuscito a raggiungere il ten. Soave alle spalle e si apprestava a pugnalarlo quando mi accorsi del grave pericolo che correva il mio ufficiale. Con la voce mozzata dall’emozione non riuscivo ad avvertire il tenente, mentre istintivamente prendevo di mira il tognino; un attimo prima di sparare riuscii ad urlargli di buttarsi a terra, e la pallottola giunse al bersaglio giusto.
Il 4 giugno, dopo esserci spostati a Forcella Longeres, le compagnie del «Val Piave» vennero mandate una a Forcella Lavaredo e l’altra a Monte Piana; su questo ultimo il nemico attaccò improvvisamente il 7 giugno travolgendo i posti avanzati della 268a e ottenendone la conquista. La nostra 267a compagnia subentrò in alcune posizioni della 268a che, avendo subìto delle perdite piuttosto gravi nella giornata del 7 giugno, era stata sostituita.
Il giorno 13 mi trovavo di sentinella nella zona di Monte Piana ed ho potuto seguire e poi partecipare all’attacco che il battaglione «Cadore» e «Val Piave» iniziarono verso le ore quattro del mattino.
Trecento soldati bavaresi, comandati da un capitano, alzarono le mani in segno di resa, ma quando gli alpini si portarono avanti per disarmarli gli avversari si buttarono sulle mitragliatrici iniziando un fuoco infernale. L’antipatico scherzo posto in atto dal capitano austriaco venne però fatto pagare in una vicina occasione, quando il capitano Rossi della 97a compagnia del «Cadore» portò in trincea — in località Sasso Cubo di Forcella di Fontananegra una fanfara e qualche fustino di vino; gli alpini suonavano e brindavano creando la convinzione di voler starsene in pace, e gli austriaci — appostati a poche centinaia di metri — applaudivano festosamente. Ma appena salì una folata di nebbia il capitano Rossi ordinò l’attacco, svoltosi silenziosamente da parte degli alpini vestiti di bianco, lungo i fianchi della posizione nemica; al momento giusto i suonati della fanfara mollarono gli strumenti e imbracciando le armi si buttarono avanti. Presi da tre lati, gli avversari dovettero arrendersi compreso il loro capitano, che era proprio quello che aveva giocato il battaglione alpino con la finta resa a Monte Piana; probabilmente erano anche gli stessi soldati. Ad ogni modo, cavallerescamente, al capitano nemico venne lasciata la pistola.
Al Sasso Cubo accadde anche un episodio più personale. Con una marmitta di caffè portata a spalle, stavo passando per le varie postazioni per portare agli alpini qualcosa di caldo da bere, mentre il fuoco di fucileria era abbastanza intenso per cui non facevo molto caso ai secchi colpi che si udivano intorno. Dopo essere passato per alcuni appostamenti, mi stavo avviando a quello successivo dal quale gli alpini mi gridavano qualcosa che non riuscivo a capire; pensavo che avessero una gran voglia di caffè e che temessero che li escludessi. Quando arrivai mi fecero notare che ero stato preso sotto il tiro, e gli austriaci mi avevano infatti trapassato la marmitta dalla quale era zampillata gran parte del contenuto.
Dopo un breve periodo di riposo, ai primi di luglio si dovette respingere numerosi attacchi nemici; fu in una di queste occasioni a Forcella Lavaredo — che morì il ten. Soave al quale avevo fatto evitare la pugnalata poco più di un mese prima.
Nello stesso mese ho partecipato a trasportare gli elementi di un grande faro sulla sommità della Cima Grande, ed altri miei compagni hanno aiutato gli artiglieri della 55a batteria a portare un cannone in posizione assai elevata. Poi — il 17 agosto, di notte — il riflettore illuminò improvvisamente Passo Toblinger e il Sexten Stein, e giù cannonate sulle posizioni avversarie. Un gruppetto di noi della 267a e l’altra compagnia del «Val Piave» siamo rapidamente saliti ad occupare quelle posizioni facendo numerosi prigionieri e alle quali affluirono anche altri reparti alpini del nostro reggimento.
Così trascorso il «ferragosto» siamo scesi a riposare ad Auronzo, con altre permanenze nel Gruppo del Cristallo, e infine — per «festeggiare» la fine dell’anno — raggiungemmo l’Ospizio Tre Croci proprio il 31 dicembre. Dopo tre giorni siamo andati sullo Stombi, poi allo Zurlong e al Testaccio (sempre abbondantemente sopra i duemila metri) prima di tornare alla base.
Il 2 aprile 1916 mi trovavo al Rauchkoft (un’aspra cresta sulle pendici del Cristallo) con la mia compagnia che era stata inviata a rinforzo dei reparti di fanteria che avevano precedentemente occupata la zona; arrivammo sulla posizione verso mezzogiorno, dopo essere saliti per un canalone innevato lungo il quale erano stati calati 500 metri di corda. Giunti sulla sommità, ove i morti della fanteria erano innumerevoli, iniziammo a ripristinare una trincea; dalla elevata posizione si scorgevano distintamente i nostri nemici, con i loro muli e le sentinelle che ci osservavano.
Dopo la promozione a caporale, ero stato avanzato — poco tempo prima — al grado di caporale maggiore, e il ten. Gallo mi incaricò di provvedere a far dare il cambio al fante di sentinella. Nel contempo l’ufficiale inviò in perlustrazione una pattuglia di venti alpini al comando del serg. Meneghin il quale — con sei uomini — cercò di attestarsi in cima a una collina che sovrastava la nostra posizione, ma dopo mezz’ora un gruppo di austriaci sciatori avanzò sul fianco per cui la nostra pattuglia dovette rientrare.
All’imbrunire, due austriaci che erano di sentinella disertarono raggiungendo la nostra linea ed affermando che un loro battaglione era pronto per attaccarci. L’azione avversaria avvenne infatti subito dopo e venne annullata pur con grave sacrificio da parte nostra e delle due sezioni mitraglieri della fanteria che erano con noi.
Il giorno successivo, ugualmente a pomeriggio inoltrato, arrivarono alle nostre linee altri due austriaci dai quali apprendemmo che due battaglioni ci avrebbero attaccato.
Poco dopo iniziò il finimondo; con le perdite del giorno precedente eravamo rimasti validi in 125, ma pur controbattendo efficacemente le masse avanzanti, anche le nostre perdite assunsero proporzioni assai gravi.
Attendevamo ansiosamente i rinforzi ma, come apprendemmo più tardi, erano convinti che noi si avesse ceduto di fronte a quella gran massa di avversari.
Noi si continuava a sparare ma il terreno si stava ormai coprendo di morti e di feriti. Restammo in sei ancora col fucile in mano; ben presto esaurimmo la dotazione di munizioni e, pur avendo fatto pagar caro ogni metro della loro penetrazione, avevamo ugualmente centinaia di austriaci di fronte. Che potevamo fare se non andarcene?
Ma gli innumerevoli feriti trasformarono i loro lamenti in ferme implorazioni di resistere ancora per non lasciarli in mano ai nemici, i quali avevano già dato prova — in precedenti occasioni — di non aver pietà per coloro che erano nell’impossibilità di difendersi.
Al pensiero di immaginare i nostri compagni morire sotto i colpi delle mazze ferrate, ci riunimmo concordando prontamente sulla decisione di lottare ancora e poi, per non cadere prigionieri, di precipitarci giù nel burrone.
I feriti ci passavano le loro munizioni, si trascinavano appresso ai caduti per recuperare altri caricatori, e ce li porgevano per alimentare il fuoco che avevamo ripreso con accresciuta tenacia.
Erano con me il cap. magg. Vascellari di Calalzo, il caporale Antonio Battistella da Revine Lago, Segat da Pieve di Soligo, Antonio Fagotto e l’abruzzese Di Bello.
La lotta condotta durante la notte è indescrivibile.
Gli attacchi nemici si facevano sempre più incalzanti, e noi si doveva far credere di essere in molti per cui decidemmo di assaltare a nostra volta il nemico.
In quella indimenticabile notte balzammo tre volte all’attacco —— con la baionetta in canna e lanciando urli di battaglia e creammo la convinzione di essere assai più di sei; gli austriaci si ritiravano precipitosamente e qualche culo giunse a contatto con le nostre baionette. Aggiravano però la nostra direttrice e ci penetravano ai lati e allora si balzava a fronteggiarli con accresciuta violenza; a colpi di moschetto, e con la baionetta quando li avevamo addosso, riuscimmo a contenere la loro insistente volontà di penetrazione.
Conclusa l’uscita si ritornava alla nostra misera trincea continuando a sparare e, al momento necessario, ributtandoci all’attacco nella notte fonda contro i nostri avversari vestiti di bianco per mimetizzarsi nel biancore della neve ma che — data la distanza ravvicinata — erano anche bene individuabili.
Durante un intermezzo tra un assalto e l’altro, mentre i nostri cari compagni feriti strisciavano penosamente tra i morti per recuperare e fornirci munizioni, io me ne stavo appiattato sull’orlo della trincea fatta più di neve che di rocce e con le mani doloranti dal frequente contatto con la canna arroventata dell’arma; continuavo a sparare ma, mentre mi accorgevo di aver esaurito l’ultimo colpo, mi si parò dinanzi la faccia di un tognino che era salito fin sul ciglio della trincea. Per un attimo mi sentii perduto ma presi subitamente il moschetto per la canna e — con la forza quadruplicata che mi diede l’intenso dolore provocato dalle arroventate parti metalliche — sferrai col calcio dell’arma un gran colpo in testa al tognino il quale rotolò lungo il pendio che aveva prima percorso.
L’alpino Di Bello venne nel frattempo raggiunto da un colpo di shrapnel che gli troncò una gamba; decisi allora di tentare il salvamento dei ferito e di recare nel contempo la notizia che lassù noi si stava ancora resistendo, affinché mandassero i tanto attesi rincalzi. Aiutai Di Bello ad appoggiarsi alla mia schiena e ad aggrapparsi fortemente al mio collo in quanto sarei partito a tutta corsa attraverso la zona battutissima dal tiro nemico; balzai come una lepre per i dirupi, senza mai badare ai sibili delle pallottole e alle schegge che sventagliavano l’aria; Di Bello era attanagliato al mio collo, e la sua gamba mozzata e solo trattenuta dalla fascia gambiera mi sbatteva addosso come ad incitarmi a resistere nella corsa forsennata, Arrivammo finalmente alle posizioni dei reparti di fanteria che facevano parte della stessa nostra Brigata «Parma».
Convinti che tante fatiche, e soprattutto il sacrificio di tanti nostri morti, meritavano di mantenere in-violata la posizione, alcuni reparti del 54° fanteria raggiunsero, al mattino, i tre alpini (Battistella era ormai morto) che ancora resistevano rincuorati dai compagni feriti.
Quando ho potuto guardarmi addosso ho constatato che una scheggia mi aveva asportato la parte sinistra della giacca; poi, spogliandomi, ho trovato a fior di pelle una pallottola la cui forza di penetrazione era stata con tutta probabilità attutita nel passare attraverso la barriera di neve che avevamo disposta di fronte alla poco profonda trincea del Rauchkoft.
Due nostri plotoni avevano intanto partecipato a varie azioni, e la compagnia ha poi stabilito — a metà maggio — un buon posto avanzato verso il Passo del Cristallo Successivamente iniziammo ad avanzare verso il Forame.
Era il 5 giugno 1916 quando una pattuglia della 268a salì verso quota 2643, seguita la notte successiva da altra pattuglia che si attestò non lontano dalla prima; una decina di giorni dopo anche il comando del «Val Piave» si portò avanti, ma la zona affidata al battaglione era troppo estesa per cui, nei primi giorni di luglio, giunse un reparto del «Cadore».
Noi della 267a compagnia fummo destinati nella zona delle Tofane per impegnare ulteriormente l’avversario allo scopo di distogliere parte delle sue truppe dagli altipiani dove esercitavano una pressione eccessiva sulle nostre truppe dislocate in quella zona.
difficoltà si presentarono notevoli, e la nostra 268a compagnia — con la 67a del «Cadore» e due sezioni mitragliatrici — ebbe numerosi scontri con il nemico.
Anche nel periodo successivamente trascorso nella zona delle Tofane — ove restammo fino al 26 agosto — la vita non era per niente tranquilla. Infatti, il 23 agosto, mentre con un plotone della mia compagnia mi stavo trasferendo da Fontananegra per partecipare all’azione sul Masarè e a dare il cambio alla 67a attestata a Zurlong, una pallottola mi trapassò il cappello alpino; comunque, unitamente a un plotone della 75a del battaglione «Cadore», siamo saliti verso le posizioni avversarie favoriti dalla nebbia per cui il nemico non si accorse di noi per ventiquattro ore. Si accorse quando avanzammo facendo quaranta prigionieri.
Il 30 agosto giunse allo Zurlong anche il comando della compagnia, mentre il magg. Alberto Neri che, col grado di capitano aveva guidato il nostro battaglione in altri due periodi inframmezzati dal comando del magg. Emanuelli e poi del magg. Gregori, si portò al Testaccio per dirigere altre operazioni nella zona del Forame.
A parte la collaborazione data al battaglione «Belluno» nel periodo seguito allo scoppio della mina che fece saltare il Castelletto, il mio reparto fu lasciato abbastanza tranquillo nei mesi successivi (solo «normali» colpi di artiglieria e di fucile) anche perchè il sopravvenuto durissimo inverno ebbe a limitare notevolmente le operazioni su tutto il fronte alpino; un pericolo piuttosto grave era però rappresentato dalla frequente caduta di valanghe.
Integrato dalla 275a compagnia di nuova formazione, il mio battaglione si accantonò in località Tre Croci, cambiando — nei successivi mesi — il comando passato al ten. col. Celoria (dal febbraio ai primi di settembre del 1917) e poi, per breve tempo, successivamente dai capitani Rossignoli, Gabutti e Pocchiola.
Intanto noi si svolgeva frequenti attività di pattuglia, ma giunse il guaio di Caporetto ad annullare tanti eroici sacrifici.
Il nostro ripiegamento avvenne tra il 4 e il 5 novembre, con meta Vodo e Fadalto; noi della 267a e parte della 275a ci trasferimmo per difendere Pian del Cansiglio, mentre la 268a si scontrava con le avanguardie nemiche.
Sul Cansiglio resistemmo fino all’impossibile, ma il nemico ci aveva ormai chiusi occupando Conegliano e il Passo di S. Ubaldo; non ci rimase che la resa.
La 268a compagnia, che aveva l’ordine di scivolare verso Ponte nelle Alpi, giunta alla nuova destinazione ci aveva atteso inutilmente (con noi c’era, ormai intrappolato e senza possibilità di collegamenti, anche il comando del battaglione), e proseguì poi con i superstiti verso Feltre e Bassano ove — dopo un riordino entrò a far parte del 12° Gruppo alpino del col. Baudino unitamente ai resti del «Fenestrelle» e dei volontari alpini del Cadore.
Noi prigionieri si venne dapprima avviati a Lubiana (a piedi e senza mangiare se non arrangiandosi), poi inviati ai Carpazi con un viaggio durato quaranta giorni; a Odessa fummo destinati, in duecento alpini, a sgomberare le strade dalla neve. Quando in Russia avvenne la rivoluzione ci portarono a Bucovina dove si rimase fino al termine della guerra
Nel frattempo, i superstiti della 268a compagnia erano passati alle dipendenze del 14° Gruppo alpino continuando a combattere in attesa di vedere integrato il «Val Piave» il cui comando era stato assunto dal capitano Nodari; ma il battaglione venne invece sciolto il 15 febbraio 1918 e i suoi resti incorporati nel battaglione «Val Cordevole».
Quando siamo tornati dalla prigionia abbiamo trovato l’Italia in festa, abbiamo abbracciato i nostri familiari ed amici, ma l’amato battaglione che per quasi tre anni combatté al grido di «Val Piave» non c’era più.

Giovanni Casagrande