MEDAGLIE D'ORO


Febbraio 1967

IN TERRA E NEL CIELO DI TREVISO PIU’ DI VENTI MEDAGLIE D’ORO IN UN ANNO DI GUERRA

- a cura di M. ALTARUI -

CAPORETTO

Nel pomeriggio del 8 novembre 1917, mentre i ponti sul Piave venivano fatti saltare, l’incalzante nemico entrava in provincia di Treviso comprensibilmente imbaldanzito dalla clamorosa vittoria che ormai riteneva definitiva.
Il comando supremo aveva già trasferito la propria sede nel palazzo Revedin a Treviso, dove si parlava - non soltanto dagl’irresponsabili - di concludere la pace separata con l'Austria; che non si potesse resistere sul Piave era pure convinzione dei capi degli eserciti alleati, i quali ritenevano che - dopo la caduta del Belgio, della Serbia, del Montenegro, della Romania e della Russia - fosse ormai inevitabile il crollo dell’Italia.
Tra lo Stelvio e il Garda il nostro esercito aveva dislocate due divisioni; dodici divisioni erano piazzate tra il lago di Garda e il Brenta; sette divisioni dal Brenta a Nervesa e altre Otto divisioni per il resto del fronte fino al mare. Truppe affaticate da dieci giorni di ritirata, avvilite dal rovescio militare che appariva irreparabile, aggrappate alle nuove linee prive di ogni apprestamento difensivo, senza artiglieria e con ridotto armamento.
Le truppe avversarie - fortemente armate ed eccitate dal successo - guidate dai migliori dei propri generali (il maresciallo Conrad, il generale tedesco von Below, e il generale austriaco Boroevic) assommavano a cinquantacinque divisioni largamente dotate di artiglierie e di ogni mezzo bellico: era comprensibile che le ventinove divisioni italiane non potessero apparire un ostacolo all’ulteriore avanzata.
La ritirata aveva recato spaventose perdite al nostro esercito: 10.000 morti e 30.000 feriti in combattimento, 265.000 prigionieri (granatieri 2.500, fanti 170.000, bersaglieri 19.000, mitraglieri 36.000, alpini 24.000, cavalleria 1.500, artiglieri 22.000, genio 7.000, aviatori 53, carabinieri 645, finanzieri 125, sussistenza 400, sanità 1.500, reparti d’assalto 650, territoriali 2.000, addetti a servizi speciali 6.500). Gli sbandati, dispersi in tutto il Paese, erano quattrocentomila!
Tra i materiali perduti possiamo ricordare: 97 cannoni di grosso calibro, 1.577 di calibro medio, 1.462 pezzi di piccolo calibro, 1.732 bombarde; inoltre: 316.000 cappotti, 486.000 giubbe, 430.000 pantaloni di panno, 143.000 zaini, 320.000 paia di scarpe, 1.300.000 capi di biancheria, 185.000 coperte, 40.000 cucine da campo, più di cinque milioni di scatole dì carne, oltre dieci milioni di scatole di condimento, 700.000 scatole di salmone, 13.000 quintali di pasta, 7.000 di riso, 1.000 di pepe, 2.500 quintali di caffé, 4.700 di zucchero, 6.500 di formaggio, 26.500 di galletta, quasi 350.000 quintali tra fieno, paglia ed avena, 5.000 ettolitri di vino, 73.000 tra cavalli a muli, 1.600 autocarri, 32 locomotive, 370 carrelli e 390 chilometri di binari «decauville», 840 carri, 34 grandi ospedali, 54 ospedaletti da campo, 27 ospedali della Croce Rossa, ecc. Quasi tutta roba passata in mani del nemico, e sulla cui entità (generalmente ignorata) riteniamo opportuno esserci soffermati.
L’impoverito esercito italiano rimase con circa quattrocentomila combattenti, e da solo - senza l’aiuto di alcuno - fermò il nemico dal Grappa al mare.
Altrettanti 400.000 avevano abbandonata la lotta decisamente sfiduciati. e questo è stato indubbiamente un motivo di rimorso nazionale e di rimprovero ai nostri soldati i quali, in quasi trenta mesi di guerra, ebbero però innumerevoli motivi di sentirsi umiliati dalla prevalente insensibilità dei politici, dalla durezza di una disciplina implacabile e troppo spesso male imposta, dall’arricchimento sfacciato dei «pescicani», dal diffuso imboscamento» dei vili!

L’EROICA E DISPERATA RESISTENZA

La precedente introduzione vale a rendere ancor più compreso e ammirato l’eroismo dei nostri soldati e che meriterebbe, anche in questa occasione, una documentazione giustamente ampia che lo spazio non consente. Dobbiamo pertanto limitarci ai ricordo dei più elevati eroismi che avvennero in territorio trevigiano, intendendo rendere omaggio - attraverso i nomi di coloro che meritarono la più alta ricompensa al valore - anche a tutti gli altri soldati decorati o umilmente sconosciuti che combatterono nella Marca trevigiana nel decisivo ultimo anno di guerra.
Accenneremo solo alle medaglie d’oro in quanto le decorazioni minori furono tanto numerose da renderne difficile anche la rilevazione del numero; basti ricordare che - solo sul Montello, e pur tralasciando le due croci dell’ordine militare assegnate rispettivamente al gen. Guido Coffaro, comandante della 57° Divisione e al col. Nicolò Giacchi comandante delle Fiamme Nere dell'VIII Armata - le medaglie d argento conferite assommano a 910 di cui 404 a ufficiali, 276 a sottufficiali, 229 a soldati italiani e una a un soldato inglese.
Anche la ricerca delle medaglie d'oro è risultata assai laboriosa, specie per l’esatto accertamento delle località in cui avvennero i fatti nei quali rifulse l’eroismo dei decorati; le rilevazioni sono state da noi eseguite con la massima cura e precisione possibili.

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La prima medaglia d’oro in terra di Treviso venne conferita al capitano degli alpini STEFANINO CURTI che il 10 novembre 1917 - al ponte di Vidor «preposto con la sua compagnia d’alpini alla difesa di una testa di ponte di vitale interesse per le nostre truppe ripieganti, si votava con indomito ardimento a strenua, accanita lotta, riuscendo ad arrestare temporaneamente l’avversario soverchiante. Con un piccolo nucleo di generosi superstiti contrattaccava per ben tre volte un nemico grandemente superiore di forze e nell’impari lotta trovava morte gloriosa».
Curti era nato a Imola nel 1895 e, già meritato un encomio, aveva ricevuto una medaglia di bronzo sul Cucco di Pozze (7-8 luglio 1916) dove era stato seriamente ferito alla gamba destra; ripreso il servizio nel giugno del 1917 fu promosso capitano assumendo
il comando della 221° compagnia del «Val Varaita» con la quale cadde combattendo, come si disse, al ponte dì Vidor. Gli austriaci lo avvolsero nella sua mantellina e lo tumularono nel punto ove era caduto, sotto una croce su cui scrissero: Hier ruht ein trapferer italieneri: qui giace un valoroso italiano.

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Al ponte di Vidor, il 10 novembre 1917, rifulse nuovamente l’eroismo del tenente degli alpini ARDUINO POLLA; passato a combattere sul vicino Monfenera quale comandante del plotone arditi del «Val Pellice», venne ferito gravemente ella testa resistendo ciò malgrado per altri due giorni. Non attese la completa guarigione, e con i suoi arditi prese parte alla battaglia sull’Asolone: venne ferito a un fianco, poi ad una gamba, infine ancora alla testa e quando lo caricarono in barella cercò di buttarsi giù per rimanere con i suoi alpini. Riuscirono a salvarlo, e la medaglia d’oro (datata Ponte di Vidor - Monfenera, Monte Asolone, 10 novembre - 10 dicembre 1917) gli venne appuntata sul petto nel maggio dell’anno dopo.
Nato a Venezia nel 1884, Polla era sindaco di un comune del bellunese e avrebbe anche potuto venire esonerato dal servizio militare; aveva invece organizzato il reparto di volontari alpini di Longarone, e già il 29 agosto 1916 - con ventisette alpini - aveva attaccato un battaglione austriaco facendo 140 prigionieri; inoltre, il 3 settembre dello stesso 1916, si era guadagnata la medaglia d’argento conquistando - a capo di una squadra di tredici volontari alpini - la punta ovest del Monte Forame. Prima di queste due azioni, Arduino Pola aveva perduto il padre vittima di una incursione aerea su Venezia che causò gravi ferite anche alla madre e alla sorella.

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ROLANDO FRANCESCO, capitano dei bersaglieri, nato a Susa nel 1889, aveva combattuto volontario in Libia ove rimase fino all’inizio della guerra mondiale; combattè in Carnia, nel Carso e sull’Hermada.
Era in licenza ad assistere un fratellastro morente per scheggia di granate che l’aveva colpito alla testa, quando giunse la notizia di Caporetto; assunto prontamente il comando di un battaglione del 18° reggimento bersaglieri, il capitano Rolando cadde combattendo al Molino della Sega, nei pressi di Fagarè, il 16 novembre 1917. La motivazione della medaglia d’oro illustre ampiamente l’eroismo del capitano Rolando che, malgrado molteplici ferite da mitraglia, riprese il comando dopo le prime cure, cadendo colpito in fronte durante l’assalto; essa ricorda infatti che quale «Comandante di un battaglione, seppe con l’esempio e con la parola preparare le sue truppe all’azione. Avuto l’ordine di attacco, con intelligente perizia dispose le sue truppe, guidandole di persona. Avvertito che in un punto il nemico ostacolava violentemente l’avanzata, vi accorreva, e, da solo, sotto fuoco intenso, sprezzante di ogni pericolo, si spingeva audacemente verso l’avversario per riconoscere l’efficienza delle sue difese, finché, investito da raffiche di mitragliatrici, rimaneva ferito. Trasportato al posto di medicazione, dopo ricevute le cure, volle ad ogni costo tornare al suo battaglione recandosi ove più era violento il combattimento. Per vincere l’ultima disperata resistenza del nemico, gridando parole vibranti di entusiasmo, con balzo leonino si slanciò in avanti, primo fra tutti, trascinando i suoi bersaglieri all’urto violento contro l’avversario che veniva travolto. Colpito in fronte, cadeva da eroe».

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Due giorni dopo, il 18 novembre, cadde sul Monfenera il capitano d’artiglieria da montagna ALFREDO Dl COCCO.
Era nato a Popoli (L’Aquila) nel 1885 e dopo aver combattuto in Libia (a Ettangi), conobbe le lotte a Monte Zebio, a Monte Cimone, sul Cismon e a Campo Merlo. Sposatosi durante una breve licenza, meritò poco dopo una medaglia di bronzo il 10 giugno 1917 sul Monte Forno; altra medaglia di bronzo gli venne conferita per il suo valoroso comportamento sul Sober (Gorizia, 19-21 agosto).
Sognava di avere dodici figli e di farne altrettanti ufficiali delle Penne Nere, ma il suo generoso sangue abruzzese bagnò invece il nostro Monfenera, e la medaglia d’oro lo ricorda «Comandante di un gruppo da montagna, in posizione avanzatissima con le sue batteria già duramente provate da intenso fuoco tambureggiante, seppe con rara e pronta perizia, con fuoco serrato efficacissimo decimare e disperdere dense masse di fanterie lanciate all’assalto. Violentemente controbattuto dall’artiglieria avversaria, fiero e tenace rispose col suo fuoco finché perduti ad uno ad uno tutti i suoi pezzi, distrutti o seppelliti sotto le piazzole franate, caduti morti o feriti quasi tutti i suoi ufficiali, in piedi fra i suoi cannoni smontati, chiamati a raccolta i pochi artiglieri superstiti faceva loro inastare le baionette ed alla loro testa si slanciava contro le folte incalzanti ondate nemiche cadendo fulminato da mitragliatrice».

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Ancor oggi vivente è l’eroe del Monte Tomba: ANTONIO CIAMARRA. Nato a Napoli nel 1891, si laureò in giurisprudenza; scoppiata la guerra, fu bersagliere nel 1° reggimento e infine aspirante ufficiale al battaglione «Moncenisio» del 3° Alpini che - nel 1917 - era alle Tofane.
Nella notte tra il 27 e il 28 novembre i superstiti del battaglione ebbero l’incarico di attaccare violentemente il Tomba che costituiva un caposaldo importantissimo di cui il nemico si era impadronito.
La motivazione della medaglia d’oro illustra ampiamente il valore espresso in quell’occasione da Antonio Ciamarra: «Comandante del primo plotone di attacco contro una forte e ben munita posizione si slanciava all’assalto con magnifico impeto. Gravemente ferito da una pallottola avversaria esplosiva impavido incitava con la parola e con l’esempio i dipendenti a proseguire nella lotta spingendosi egli stesso fin sotto il reticolato nemico. Ferito nuovamente per ben sette volte con fulgido eroismo continuava ad incitare i dipendenti alla resistenza fino a che, esausto per le numerose ferite dovette esser portato via quasi esamine».
Antonio Ciamarra, divenuto colonnello, è ora presidente del Gruppo Medaglie d’Oro.

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A Zenson di Piave, il 4 dicembre 1917, concluse la sua vita eroica il maggiore di artiglieria CARLO EDERLE; era nato a Verona il 29 maggio 1892 e si distinse subitamente in numerose azioni.
Decorato di medaglia d’argento per le eroiche prestazioni date sulle alture del Carso 18 novembre 1915 e nel gennaio-marzo 1916 - quando venne seriamente ferito - meritò una seconda medaglia d’argento sul Carso il 29 giugno 1916 venendo ancora ferito; la terza medaglia d’argento gli venne conferita per l’eroico comportamento tenuto a Pecinka dall’ 1 al 22 novembre dello stesso anno.
La motivazione della medaglia d’oro così riassume l’eroica breve esistenza del magg. Ederle alla cui memoria è anche intitolato uno dei collegi dell’Università di Padova e una caserma nella città natale: «Capo degli osservatori d’artiglieria della 3’ Armata era solito superare ogni limite di sacrificio e dì ardimento, sia nell’assolvere i suoi particolari compiti, sia nel partecipare dì propria iniziativa, alle azioni di fanteria, fante tra fanti, compagno incomparabile tra inferiori ed uguali, animatore di uomini e di masse. Tre volte ferito, tre volte decorato di medaglia d’argento al valor militare, encomiato solennemente una volta, per altre ricompense proposto, per merito di guerra assurto in età giovanissima al grado di maggiore, era vivissimo, forte, generoso. La morte sfidata e sprezzata in trenta mesi di fulgide prove, nel giorno di S. Barbara durante un’azione spezzava la sua giovinezza simbolo di leggendario eroismo».

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Anche l’eroismo del sottotenente aviatore GIANNINO ANCILLOTTO culminò con un’azione compiuta nel cielo della provincia di Treviso.
Nato a S. Donà di Piave nel 1897, si arruolò volontario a diciassette anni ottenendo in breve tempo il brevetto di pilota; promosso caporale, ebbe un encomio solenne per un’azione compiuta il 20 maggio nella valle del Vipacco; nominato aspirante ufficiale svolse azioni di bombardamento e di ricognizione sul Trentino dal 23 giugno al 21 luglio 1916 e sul medio Isonzo dal 24 luglio al successivo 28 marzo 1917, da meritargli la medaglia d’argento.
Altra medaglia d’argento (datata: Cielo carsico e cielo di Treviso, 25-27 ottobre - 3 novembre 1917) gli venne conferita per l’opera compiuta nel corso della ritirata e durante la quale abbatté quattro aerei uno dei quali, germanico, precipitò nei pressi di Rovarè di S. Biagio di Callalta.
Ancillotto bombardò persino la sua villa di S. Donà che, occupata dagli austriaci, era stata adibita ad osservatorio; una caccia accanita egli condusse ai palloni osservatori (draken) alzati dal nemico sulla linea del Piave per controllare l’attività e i movimenti delle nostre truppe. La motivazione della medaglia d’oro lo ricorda «Pilota da caccia di ammirevole slancio, dal 30 novembre al 5 dicembre 1917 in una serie di attacchi audacissimi incendiava tre palloni nemici e ne costringeva altri a cessare dalle loro osservazioni. In una speciale circostanza assaliva l’avversario con tale impeto da attraversare l’aerostato in fiamme riportando nel proprio velivolo gravemente danneggiato lembi dell’involucro lacerato».
Questo pallone, conosciuto come il drago di «Rustigné»era ritenuto imprendibile anche perchè difeso da attentissimi caccia e da precise batterie antiaeree. Ancillotto arrivò a volo radente puntando subito verso il pallone mentre i vigilanti tre aerei avversari iniziavano a bersagliarlo implacabilmente; al nostro aviatore non rimase che buttarsi decisamente contro l’aerostato nemico uscendone dal rogo con l’aereo gravemente danneggiato.
Le imprese dell’eroico aviatore continuarono frequenti. Merita di essere ricordata l’azione compiuta nella notte dal 23 al 24 luglio quando due aerei tedeschi si approssimarono a Treviso per bombardarla; Ancillotto si accordò con la difesa antiaerea perchè non intervenisse, poi affrontò con veemenza i due aeroplani avversari buttandoli entrambi a terra.
Terminato il conflitto, Giannino Ancillotto compì imprese aviatorie eccezionali in Europa, America e Africa. Lo tradì la nebbia che, nella notte del 18 ottobre 1924, lo fece uscire di strada con l’automobile riportando mortali ferite.

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FRANCESCO BARACCA ebbe la medaglia d’oro con la seguente motivazione: «Primo pilota da caccia in Italia, campione indiscusso di abilità e di coraggio, sublime affermazione delle virtù italiane di slancio e di audacia, temperato in sessantatre combattimenti ha già abbattuto trenta velivoli nemici, undici dei quali durante le più recenti operazioni. Negli ultimi scontri tornò due volte col proprio apparecchio gravemente colpito e danneggiato da proiettili di mitragliatrice. Cielo dell’Isonzo, della Carnia, del Friuli, del Veneto, degli Altipiani, 25 novembre 1916, 11 febbraio, 22-25-26 ottobre, 6-7-15-22 novembre, 7 dicembre 1917».
L’eroismo di Baracca si svolse, come ben ricorda la datazione della medaglia d’oro, su un fronte aereo vastissimo per cui appare assai arduo identificare anche la prevalente azione svolta nel cielo della provincia trevigiana.
Ma noi trevigiani l’abbiamo troppo nel cuore per rinunciare a considerare Baracca un eroe locale.
Aveva cominciato a buttar giù aerei il 7 aprile 1916 (medaglia d’argento; cielo di Medeuzza) continuando nel celo di Gorizia e ancora su quello di Caporetto (altra medaglia d’argento, cumulativa; 23 agosto 1916 - 16 settembre 1916); terza medaglia d’argento alla settima vittoria (cielo di Udine, 11 febbraio 1917), onorificenza di Ufficiale dell’Ordine militare alla vittoria successiva (Cielo carsico, 26 aprile 1917) e promozione a maggiore dopo la 19a vittoria; ma fu partendo dall’aeroporto di Treviso e combattendo nel nostro cielo che Francesco Baracca raggiunse il «quorum»di trenta vittorie che gli valse l’accennata medaglia d’oro. E fu nel nostro Montello che, dopo trentaquattro vittorie, Egli cadde lasciandoci perenne testimonianza della sua gloria.

(Dopo la presente rievocazione delle medaglie d’oro conferite negli ultimi due mesi del 1917, seguiranno le altre riguardanti le m.o. del Montello e degli altri fronti in provincia di Treviso nel corso del 1918).