LA LEGGENDA DELL'ALPINO


Aprile 1964

Quando Gius nacque, nell’estate del 1839, in un paesino coronato dalle prime colline lombarde, un’Aquila scese silenziosa e solenne dopo aver volato lungo tutto l’arco alpino e l’appennino dorsale quasi a raccogliere ansie e saluti della gente della montagna da recare alla culla del piccolo nato.
L’Aquila italica volteggiava nel cielo dei suoi monti ma un rapace a due teste ne insidiava i liberi voli esigendo soggezione e nascondimento; ma il giorno in cui Gius nacque, l’Aquila sortì dal nido malgrado le ferite che recava dal lungo lottare e, strappatasi col rostro la più lunga penna da una delle ali, la lasciò cadere, portatrice di un messaggio di libertà, tra le braccia del piccolo Gius.
L’Aquila amica ritornò poi ai monti, a rinvigorire le proprie forze e a riprendere a lottare con sempre crescente passione l’implacabile avversaria d’Oltralpe, riuscendo a spellarla sempre più nel corso del tempo.
Anche il giovane Gius cresceva custodendo quella penna che, tramite il cielo, la giovane Aquila gli aveva donato; l’apice del suo stelo manteneva la vitalità che l’aveva fiorita dal robusto fianco alato, e si mantenne come una cosa viva quale eccezionale segnalibro dei testi storici che Gius andava studiando e che profetizzavano la nascita di Ita, giovane principessa il cui spirito aveva rifugio nel cuore di tanti generosi.
La principessa ha attendeva da tempo di nascere, ma le occorreva un’entità fisica in cui concretizzarsi, un corpo fatto di sole, di monti, di valli e di mare, che il destino già le aveva assegnato ma che gli artigli e le fauci di belve straniere non volevan lasciare.
Gius frattanto cresceva e quando ebbe vent’anni se n’andò volontario a combattere quell’aquila bicipite che ancora imperiosa saettava sul regno futuro di Ira; due anni più tardi, nel 1861, le ali nemiche dovettero limitarsi ai Monti Pallidi, al pietroso Carso e alle antistanti pianure ma Ita, la giovane Italia, ebbe finalmente il suo regno.
Sin dall’inizio non fu una sovranità facile né completa e, come molti altri, il giovane Gius divenuto ufficiale proprio alla costituzione dell’incompleto regno — ritornò alle battaglie e nel 1866, combattendo per una raggiunta nuova integrazione del suolo patrio, ebbe dalla riconoscente Italia una medaglia di scintillante argento.
Bisognava ora consolidare, proteggere, ed anche Gius si dedicò all’impresa con lo studio di questa necessaria difesa dal persistente pericolo che l’imperial aquila bicipide — annidata oltre le giogaie alpine — potesse scendere col rapace artiglio.
Si trovò tra le mani la penna che l’Aquila amica gli aveva affidata il giorno in cui nacque, l’intinse nel sangue che i patrioti avevano copiosamente sparso in ogni luogo d’Italia, e scrisse che «per la difesa di alcuni valichi alpini e l’ordinamento militare territoriale della zona di frontiera» occorreva una naja speciale che meglio d’ogni altra potesse «combattere e scorrere sui monti».
Scritto l’articolo per la «Rivista militare italiana», Gius si collocò la penna d’aquila nel solco mediale dell’orecchio sinistro. L’Italia ebbe così, nel marzo 1872, con quel certificato di nascita appena steso e quella penna d’aquila intinta nel Risorgimento, il suo primo Alpino: un Alpino nato nel 1839 e che aveva custodito per trentatre anni quella penna che l’Aquila popolare italiana gli aveva gettato nella culla in segno di speranza e sprone, ed è forse per questo che nacque la Marcia del «33» che regolerà il passo di cinque generazioni d’alpini.
Gius, l’Alpino Giuseppe Perrucchetti, si levò infine la Penna che aveva posata alla tempia sinistra, e con veemenza la proiettò come una lancia verso il cielo dell’Alpe; su, su, verso l’infinito, incontro al sole e alle stelle, ebbra di libertà. di calore, di vita, d’eternità.
La penna d’aquila saliva saettante verso l’eterno, con la punta del calamo intrisa dell’ultima goccia di sangue che sarebbe servita a porre il punto finale all’articolo di Perrucchetti, ma che rimase invece fresca e generatrice perchè ormai, per la storia degli Alpini, non esisteva la fine.
Il sole vide salire la penna assetata d’immenso e la fece fiorire; come un fuoco d’artificio tante nuove penne si riprodussero da quella originaria e presero a scendere, pur esse con i calami arrossati di sangue risorgimentale, verso la terra d’Italia. Una miriade di piccole stelle si staccò dal cielo seguendo quella pioggia di penne d’aquila.
Le prime quindici penne scesero in Piemonte, in Lombardia e nel Veneto formando altrettante compagnie d’alpini, e sul cappello rigido dei nuovi soldati le stelle si posarono a formarne il fregio; la goccia di sangue alla punta della penna costituì la rossa nappina.
Le compagnie divennero presto ventiquattro raggruppate in sette battaglioni a loro volta saliti a dieci in pochi anni; dopo un decennio i battaglioni di Penne Nere furono venti, riuniti in sei reggimenti, e l’Italia regina mandò allora il suo capo a passarli in rivista.
L’originaria e generatrice penna di Perrucchetti venne invece raccolta dall’Aquila donatrice e da questa recata sui monti dove ancora beccava il doppio rostro dell’aquila nemica; non si sa dove esattamente posò la penna alpina simboleggiante le mete future: forse un po’ in tutte le montagne: dalle ambe africane al Tonale, sulle Tofane, sul Pasubio. sul Montenero, sull’Adamello, l’Ortigara, sul Grappa e chissà dove.
***
Gli alpini cominciarono a scarpinate per i monti ma gli spiriti della montagna non gradivano la conquista del loro regno e si associarono per impedire l’avanzata; si radunarono su un alto cocuzzolo delle Alpi e decisero di far rotolare la cima di un monte addosso al primo alpino che si fosse fatto avanti: il che non tardò ad avvenire.
Spiriti, folletti e gnomi della montagna si diedero a scalpellare e spingere la vetta più alta che finì con lo staccarsi travolgendo però anch’essi ed impastando tutti quanti con la neve e i ghiacci che incontrava nella sua vertiginosa caduta verso il piano.
La poderosa valanga, contenente tutti i misteriosi gnomi e la cima più alta delle Alpi vestita di ghiacci e di stelle alpine, precipitò sulle spalle dell’alpino in ascesa il quale esclamò: «Porca naja, il governo m’ha affibiato lo zaino».
Così avvenne che l’armadio degli alpini fece parte integrante della loro schiena, ed anche i folletti della montagna vi son rimasti ad abitare convinti ormai di aver trovato dei buoni amici.
I folletti si rendono anche riconoscenti come possono: annidati nelle chitarre ed armoniche che non mancano nello zaino alpino, han insegnato al loro padrone le canzoni melodiche e tristi delle montagne, la nostalgia per la casa e, quando non vogliono proprio fare i lavativi tengono un po’ in ordine tutta quella roba che c’è dentro l’«armadio»:
fanno pure compagnia alle fotografie della morosa o della famiglia dell’alpino, gli profumano di erbe la biancheria, tengono pulita la gavetta ma evitano di fare altrettanto col gavettino ché sarebbe fatica sprecata tanto viene usato.
Qualche volta piangono gli gnomi e folletti della montagna, e le loro lacrime irrorano il mazzo di stelle alpine che orna lo zaino padronale, conservando così eternamente i bei fiori che ormai non possono più alimentarsi del succo della roccia. E’ un pianto di nostalgia quando si trovano con l’alpino al piano, e di gioia quando con esso si trovano sui monti: gli stessi sentimenti, di gioia e di dolore, che gli alpini esprimono cantando.
Gli alpini già faticavano da alcuni anni sui monti quando, nel 1879, l’Aquila amica cercò di rendersi utile nell’aiutare una giovane Penna Nera.
Un vecio e un bocia erano stati inviati in esplorazione verso la cima di una montagna; erano armati fucile ed erano entrambi muniti
una tromba da richiamo.
Ad un certo punto la salita si fece più aspra per cui gli alpini addossarono al fianco del monte i due fucili incrociati l’un con l’altro e posarono in mezzo le due trombe, dopo di che il più anziano prese a scalare la parete rocciosa, mentre il bocia attendeva l’esito dell’attacco; il vecio vide possibile il passaggio e gridò dall’alto di salire portando armi e trombe.
Guardando perplesso i fucili e le trombe e la parete che gli si presentava dinanzi, il bocia riteneva impossibile l’impresa ma presto vide l’Aquila scendere, abbrancare fucili e trombe e salire verso la cima inondata di sole.
Il giovane alpino alzò il capo sul quale portava il rigido cappello col fregio a bianca stella, e l’ombra dell’aquila con i fucili e le trombe
proiettò su quel cappello come indelebile segno di sprone ed incoraggiamento. E’ da allora che gli alpini portano il fregio dell’incitante aquila dalle ali spiegate, ed anche per quel perpetuo invito essi supereranno gli ostacoli futuri.
Il verde è sempre stato un colore magnifico: indica primavera, amore, speranza nella vita. E’ il colore predominante in questo nostro mondo dove anche l’acqua delle profondità marine è verde, dove fiori
frutta si presentano colorati in verde prima che esploda la fantasmagoria di tinte della loro maturità; pianure e colline son belle solo quando hanno il loro manto di verde; gli alberi dan tristezza se privi delle loro chiome. Tra i colori dello spettro solare il verde è quello centrale.
Chiamano anni verdi quelli che l’uomo vive giovane e pieno di speranze, e queste comprendono la necessità del mantenimento delle conquiste raggiunte e l’anelito a mete future.
Nel 1883 diedero agli alpini le mostrine verdi: una rappresentava il territorio nazionale libero e da difendere, l’altra simboleggiava la parte d’Italia che attendeva di venire liberata ed unito alla Madre Patria.
***
Per rendere concreta questa duplice speranza, gli alpini crescevano di numero: ai primi sei reggimenti altri nidi d’aquile sorsero nel 1887 con la creazione del 7° e nel 1909 con 8° reggimento, mentre il successivo nacque dopo una guerra europea e l’ultimo all’accendersi di una guerra africana.
Nel 1887 l’Aquila alpina compì una nuova prodezza: vide in pianura un cannone e ritenendo che fosse utile ai suoi amici delle cime lo sollevò portandolo sulla vetta.
Gli artiglieri adibiti al pezzo si portarono sotto la parete per recuperare la bocca da fuoco, ma non ce la facevano nemmeno ad iniziare l’ascesa.
L’Aquila capì di aver messo nei guai quei giovanotti, ma nemmeno lei ce la faceva a riportar giù il cannone: s’era fatta già mezza ernia con la prima fatica e si limitò a portare agli artiglieri un cappello d’alpino e una verde mostrina per far capir loro che il cannone era in buone mani.
Giunta che fu sul gruppo degli artiglieri, ognuno di questi tentava d’impadronirsi del cappello che l’Aquila teneva tra gli artigli, e della mostrina che essa stringeva col rostro; a forza di proiettarsi in su, ad un artigliere si verificò l’allungamento della pancia ma riuscì infine ad afferrare il copricapo mentre la mostrina verde cadde spezzata in due dal troppo stringere dell’aquila.
L’artigliere «panza longa» si mise in testa il cappello d’alpino e si appuntò le due mezze mostrine verdi accanto a quelle dell’artiglieria per essere riconosciuto dagli alpini quando sarebbe giunto lassù a recuperare il cannone.
La salita fu agevole con quella nuova guida in testa, e quando gli artiglieri raggiunsero il cannone pensarono che era meglio lasciarlo dov’era e vi rimasero pur essi col cappello degli alpini al cui fregio sostituirono l’effige di due bocche da fuoco, in un luogo dei fucili, a ricordo dell’episodio che, li fece diventare Penne Nere.
Al primo reggimento dell’artiglieria così sorto nel 1887, ne seguirono altri cinque nel 1909, 1926, 1934, 1935 e 1941.
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Il cappello dell’alpino s’era andato con gli anni trasformando:
quando glielo misero in testa la prima volta era una bombetta più adatta alle cerimonie dei signori della pianura che al duro vivere sui monti.
L’elegante linea del cappello «a tronco di cono» risentiva dei servizi che l’alpino gli imponeva: l’ala anteriore calò sotto il peso della pioggia scrosciante ed anche il battere del sole consigliava di tenere giù la tesa per meglio proteggere gli occhi del proprietario; l’ala posteriore, premuta dal giganteggiare dello zaino, quasi si appicciccò contro la parete del cappello; il colore scuro da cerimonia se lo bevette il feroce riverbero del sole sui ghiacciai, e poiché il cappello serviva anche da guanciale nei prati erbosi, iniziò ad assumere un colore verdastro; ficcato senza tanta delicatezza nei recessi più impossibili dello zaino, il copricapo alpino era diventato malleabile e ben calzabile in testa come esige la vita in montagna; il cappello veniva abbrancato sul davanti quando era da mettere o levare formando due profonde «pacche» che sembravano una maniglia.
Nel 1908 decisero di dare agli alpini il cappello con le «modifiche»
già pronte: il cappello che anche adesso gli alpini usano; mancano ancora le «pacche» sul davanti ma a ciò provvede il «vecio» per necessaria distinzione dal «bocia».
Nello stesso anno vestirono gli alpini in grigioverde, per uniformità col cappello, e le Penne Nere furono infatti i primi reparti dell’esercito italiano a vestire la nuova divisa. Quanti Alpini rimasero vestiti per sempre con quell’uniforme, sotto un tumulo di pietre quando mancava la terra, con sopra una croce vestita del cappello con la penna nera ad indicare che, lì sotto, era di casa un alpino.
Gli alpini erano caduti tra i rododendri, le stelle alpine e i baranci; anche i sopravvissuti riposavano, stanchi da morire, immersi negli arbusti di rododendro, nelle macchie di barancio, col viso affondato nei cespi di stelle alpine; e il polline di queste erbe e fiori di montagna si trasmise al vivo goccio di sangue della nappina, e fiorì; per questo le nappine, originariamente solo rosse, si rivelarono presto bianche, rosse e verdi, i colori delle stelle alpine, dei rododendri e dei baranci.
Quando i reggimenti si trovarono schierati, battaglione fianco a fianco, all’Aquila che li sorvolava compiaciuta apparve un mosaico tricolore costituito da una infiorescenza di bianco, rosso e verde; una immensa bandiera che copriva a protezione l’Alpe intera.
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Gli alpini passarono dalle sabbie africane alle montagne di casa, in quelle Alpi dove l’Aquila aveva posto la penna di Perrucchetti
segnare il confine naturale d’Italia.
Anche quella guerra finì, e l’alpino tornò a casa pieno di ricordi lieti e tristi che andavano difesi; prese l’elmetto che gli era servito in battaglia e cominciò a tempestarlo di colpi con una roccia intrisa di sangue.
L’elmetto si aprì dilatandosi come un piatto enorme, come uno scudo di quelli che l’alpino aveva visti al braccio degli avversari nelle prime campagne d’Africa.
Concluso quel primo lavoro, il «Vecio» pose su quella specie di altare d’acciaio le sue mostrine verdi che il calore della Vittoria rese molli ed infine liquide da espandersi su tutto il disco; tolse di sotto la giubba il mazzo di penne d’aquila che i compagni caduti gli avevano consegnato, e lo pose sul verde scudo bagnato di sudore
di lacrime.
Perrucchetti era morto da pochi anni e l’Aquila, che gli aveva donata la Penna poi conservata nelle Alpi fino al compimento dell’unità d’Italia, scese ancora una volta sulla piana lombarda che aveva visto il suo primo volo verso la culla del fondatore delle Penne Nere; l’Aquila recava col rostro quella prima Penna generatrice e posò sullo scudo verde del reduce alpino.
L’Associazione Nazionale Alpini nacque così, dalla stessa penna d’aquila che aveva visto nascere il Corpo degli Alpini e che ricopre
protegge le Penne Mozze di tutte le guerre.
Attorno all’emblema dell’A.N.A. si strinsero gli alpini generatori di altri alpini, mentre l’Aquila amica usò le sue ultime forze per raggiungere l’angolo di Paradiso dove Perrucchetti e tante Penne Mozze eran già arrivati, dove molti altri Alpini dovevano ancora arrivare.

MARIO ALTARUI

(riproduzione ammessa citando la fonte)