NIKOLAJEWKA


Febbraio 1963

E’ stato un tormento questa notte di gennaio: il sonno tardava a venire e, malgrado il tepore della stanza, un brivido insolito mi percorreva il corpo come una carezza glaciale.
Gli occhi immersi nell’oscurità mi facevano intravedere in modo evanescente i titoli dei giornali d questi giorni, come avviene quando si abbassano le palpebre dopo aver soffermato lo sguardo su una sorgente luminosa: Nikolajewka, celebrazioni organizzate in varie località da tante fedeli associazioni combattentistiche ed alpine.
Quasi per cancellare quel balenìo di titoli che riaccendevano in me ricordi di sofferenze inaudite, chiusi gli occhi: fu peggio.
Mi rividi nei pressi di Nikolajewka, dopo i nove giorni di marcia combattuta che avevano seguito l’ormai avvenuto accerchiamento del Corpo d’Armata Alpino; esausto e sfiduciato come tutti coloro che mi circondavano.
L’orda di uomini in cui mi trovavo si era asserragliata in cima ad una specie di colle dal quale si intravedeva l’abitato di Nikolajewka la speranza che i comandi tedeschi, che avevano fatto trattenere i nostri reparti a reggere il fronte fino all’estremo, avessero almeno assicurato l’ultima via possibile per la nostra salvezza, si rivelò una disperante delusione.
S’era formato un concentramento di truppe prevalentemente alpine tra le quali erano finiti soldati di fanteria, di sussistenza, tedeschi e rumeni. Molti trascinavano nella neve compagni feriti, sfiniti, congelati o addirittura morti, mentre i russi sparavano senza sosta con mortai e katiuscie e noi non avevamo nemmeno la forza di scostarci dalle zone maggiormente battute.
In fondo al lungo pendio, liscio, centrato dal fuoco nemico, appariva la possibilità di salvezza fatta di isbe un po’ calde dove trovare magari qualche patata, delle cipolle o un pugno di farina.
A quasi un chilometro dal terrapieno che separava noi da Nikolajewka, i resti di alcuni battaglioni del 5° e del 6° Alpini continuavano a combattere fin dalla mattina del 26 gennaio e bisognava pure noi agire al più presto.
Gli ufficiali della «Tridentina» esortavano al pur necessario assalto: Alpini, è l’ultima battaglia; chi ha ancora forza, chi ha ancora qualche cartuccia si faccia avanti.
Il gesto del Generale Reverberi di salire su un carro armato tedesco che aveva solo ancora qualche colpo da sparare, fu determinante e molti lo seguirono nell’attacco mentre la selezione degli uomini abbastanza validi seguiva frenetica da parte degli ufficiali.
Le forze fisiche e morali di quelli rimasti erano appena sufficienti per tenerci in piedi, quando il Magg. Antonio Severoni, più anziano di noi ed anche più sfinito, mi guardò con un’espressione mista di comando e di implorazione: partii velocemente con alcuni dei miei uomini, sotto il fuoco dei russi; anche gli altri «morti in permesso» raccolsero disperatamente le ultime risorse della volontà e del corpo e balzarono avanti verso la maledetta ferrovia che sembrava insuperabile.
Gli alpini continuavano ad essere falciati dal fuoco delle truppe siberiane e cosacche, e dai reparti di artiglieria e dei carri armati T. 34, ma persistevano nell’avanzare combattendo. Cadde anche il Generale Martinat a fianco del quale ero stato fino al giorno prima su ordine del mio Maggiore Severoni: è morto a poche ore dalla salvezza, mentre combatteva come sempre accanitamente col fucile in mano come un qualsiasi Alpino.
Al grido di «Italia!, Italia!» il mio gruppo combattente giunse nelle prime posizioni verso il sotto passaggio della ferrovia che sovrastava come un ponte quel fiume di nomini lanciati nei disperato attacco.
L’azione era condotta in modo esasperato ma, date le circostanze, con sufficiente ordine di spiegamento; il magnifico battaglione «Edolo» era ancora efficiente e bene inquadrato dai propri ufficiali; gli altri improvvisati reparti rispondevano alle coerenti disposizioni tattiche dei comandanti anche se questi si succedevano nella guida perchè travolti dal fuoco nemico.
Fu così che si giunse a superare il viadotto; Reverberi scese dal carro armato e continuò, esposto al fuoco, a comandare la violenta battaglia per inoltrarsi nella città.
Avevo ancora qualche caricatore e alcune bombe a mano; ad un certo momento le mani erano gelate da non poter più azionare il grilletto e andai dietro il carro armato per riscaldarmi un po’; continuai poi a sparare verso una chiesa ove s’erano intravisti i russi e la lotta continuò ancora per poco fino a che il nemico sgomberò dall’abitato.
Altre difficoltà ci attendevano nei successivi giorni, ma intanto ci sentivamo vittoriosi e salvi tra le fiamme di Nikolajewka.
Avevo ancora qualche alpino con me e la notte ormai si avvicinava. Ci buttammo in un’isba ma trovammo ben poco per ristorarci; mentre ci addormentavamo esausti, la colonna dei redivivi continuava a giungere a Nikolajewka.
Dopo qualche ora mi svegliai e l’isba era zeppa di alpini che riposavano; un capitano mi dormiva addosso; feriti e congelati si lamentavano sommessamente anche per non disturbare il riposo di chi aveva combattuto anche per la loro salvezza.
Al mattino ritrovai anche il Maggiore Severoni che si complimentò con me per l’azione scaturita da quel suo sguardo muto alle porte di Nikolajewka. Avevamo molta fame; quando incontrammo il primo camion italiano l’autista regalò una scatoletta di sardine al maggiore e questi là divise con me da buon fratello.
Così, con poche sardine ripartite tra un ufficiale superiore e un sergente maggiore, terminano i miei ricordi sull’esperienza disumana ma gloriosa di Nikolajewka.
Riaprii gli occhi ormai immersi nelle lacrime mentre il pensiero riandava ai tanti compagni caduti nei dieci giorni di calvario che portarono a Nikolajewka.
Poi il sonno giunse a donarmi un po’ di riposo, come vent’anni or sono.

Conegliano, 27 gennaio 1963
GUERRIERO VASCELLARI
della Divisione Cuneense