DONNE DI ALPINI


Dicembre 1961

DONNE DI ALPINI

Era il settembre del 1953.
Il giorno seguente l’adunata nazionale di Cortina d’Ampezzo mi trovavo a S. Vito di Cadore per alcuni giorni di riposo, residuo ultimo di una centellinata licenza annuale; seduto su di una panchina dei brevi giardini situati in prossimità della strada, leggevo un giornale godendo degli ultimi e appena tepidi raggi di sole nel freddo autunno cadorino, in annoiata attesa del pranzo imminente.
Il paese, alla fine di settembre, era pressoché deserto e si poteva agevolmente seguire l’affrettato passaggio dei pochi rimasti e delle ormai rare macchine in transito; non mi sfuggi quindi il faticato in- cedere di un carrettino, sospinto da due donne ed un ragazzo.
Procedevano verso Cortina e la sensibile pendenza stradale rendeva visibile lo sforzo imposto; chissà di dove venivano, e dove dovevano andare se pur avevano una meta, una casa loro.
Il carretto era uno di quelli che frequentemente s’incontrano ancora fra le nostre montagne: con due ruote di legno cerchiate in ferro, due stanghe che mai conobbero i fianchi di un animale da tiro ma le spalle e le braccia di esseri umani divenuti bestie da soma; ed ere carico di oggetti disparati: cucchiai e mestoli di legno, trappole per topi e ceste da verdura in filo di ferro, modeste bamboline di celluloide, rivoltelline di latta e qualche paio di pianelle fatte in casa.
Il triste mercatino era diretto da queste persone: una donna anziana incappucciata sino agli occhi da un nero fazzolettone, uno scialle pure nero dì lana stinta, un rappezzato grembiale sulla sottana e, ai piedi, un paio di ciabatte di pelle quali si usavano in tempi non lontani anche nelle nostre campagne. L’altra donna era piuttosto giovane, non superante comunque i trentacinque anni, e l’aspetto dimesso, con quei capelli biondi raccolti alla nuca in un affrettato chignon, il grembiule un dì nero e che l’azione incessante del sole aveva recato rossastri, rugginosi riflessi, quelle babucce di stoffa fatte forse col residuo di un cappotto raggiunto in tempi migliori, non nascondevano la persistenza di una bellezza giovanile; soltanto i polpacci erano muscolosi e quasi maschili per il duro faticare.
Il ragazzo, di undici o dodici anni, dalla testa un po’ arruffata, indossava un paio di pantaloncini corti ma troppo ampi, sorretti da bretelle della stessa stoffa, su una camicetta di tela stampata; ai piedi, un paio di grezze calze e delle grosse scarpe militari che sapevano d’armistizio.
Un breve dialogo tra le due rivendugliole decise la sosta proprio davanti a me e il barroccio accostò a destra sbandando paurosamente in prossimità della cunetta, quasi rovesciandomi addosso la povera mercanzia. M’erano vicinissimi, e mentre la donna anziana e il ragazzo sedevano sul muretto che fa quasi da basamento ai brulli giardini, la giovane (che non tardai a capire essere nuora dell’altra e madre del ragazzo) traeva da una borsa di stoffa poche stoviglie slabbrate e qualche cartoccio.
Con le scarpe quasi sfioravo quelle modeste cose e, col viso occultato dal giornale spiegato e lo sguardo nascosto dagli occhiali neri, osservavo, quasi senza apparire, la scena.
Fu allora che scorsi, al collo delle donne, gli aurei medaglioni dal basso titolo con la medesima, minuscola ma inconfondibile, fotografia di un giovane col cappello alpino.
Non ebbi dubbi sul rapporto esistente tra quella mozza penna nera e le tre creature che mi stavano dinanzi, mentre avevo l’impressione che i raggi di sole si fossero istantaneamente trasformati in ghiaccioli conficcati nelle mie carni. Compresi la tragedia di quelle tre generazioni per la perdita di un uomo che tutto rappresentava per loro: quella madre che vide annullato ogni sacrificio per il figlio quasi certamente unico per ammettere quel lungo vagare; quella sposa divenuta tale appena il tempo per essere madre e che dell’amore conobbe soltanto il sogno; quel povero ragazzo dal padre premorto che mai conobbe, e dall’incerto avvenire denso d’incognite cupi e privo di ogni luce che non sia il sole delle montagne.
E il dolore che mi aveva pervaso si acuiva seguendo sbigottito i preparativi di quel magro pasto in attesa del quale il ragazzo tamburellava impaziente, con un cucchiaio, la capiente gavetta d’alpino incisa secondo le vecchie regole della naia.
Sembra impossibile di che cosa si siano cibati quei tre nomadi derelitti: un po’ di formagella troppo bianca e magra per esser fatta con latte intero e un po’ di pane diviso con lentezza sacerdotale per non disperderne una briciola; poi una spanna di polenta tratta da un tovagliolo pulito e che si trovava ora priva di companatico.
Dopo breve ponderazione la donna giovane trasse di tasca un consunto borsellino di dove prelevò qualche spicciolo che con rassegnata risoluzione porse al ragazzo con una bottiglia vuotata dell’acqua rimasta; dopo poco egli tornò con del vino nero che, versato nella gavetta sino ad allora inutilizzata e con ‘aggiunta di un po’ di polenta sbocconcellata, servì a completare il pasto.
Alla fine, una breve sosta, mentre il ragazzo toccava ora una trombetta ed ora un altro giocattolo redarguito stancamente prima dalla nonna e poi dalla madre; il giovanetto ripose quei giocattoli a lui non destinati e quasi subito la piccola azienda commerciale si preparò a ripartire.
La giovane donna s’infilò sino alle spalle il cappio di corda e, prese con le mani le stanghe, cominciò a tirare; il piccolo bazar si mosse avviandosi verso Cortina. spinto a fianco dal ragazzo, con la vecchia un po’ tardiva e trascinata dal carretto. Scomparvero così al di là della chiesa: forse sognando che, ad ogni curva, il baldo alpino di dieci anni prima venisse in. loro aiuto.
Non ero riuscito né a muovermi né a parlare: ogni decisione a farlo mi era inibita da una forza misteriosa.
Solo più tardi mi avviai all’albergo ma non avevo molto appetito sazio com’ero della fame di quella famiglia alpina che nemmeno aveva dato di vedermi a mezzo metro di distanza. E alla sera, quando spinto dal freddo settembrino mi coricai di buon’ora, ripensavo a quelle creature randage ricoverate forse in qualche sforacchiato tabià e mormoranti una breve preghiera per l’alpino che, anche quel giorno, non era andato loro incontro.

MARIO ALTARUI