Divisione CUNEENSE
LA TRAGEDIA DEGLI ALPINI DELLA CUNEENSE NELLA CAMPAGNA DI RUSSIA
di Riccardo Baldi -
www.alpini-cuneense.it
Sacrificati con gli alpini della Julia per permettere all'Armir la ritirata
Nonostante il contributo italiano alla campagna di Russia non potesse essere che
irrilevante, Mussolini con incosciente insistenza, più volte avanzò la
richiesta a Hitler affinché l'Armir fosse inviato in prima linea, pretendendone
il "sacrificio di sangue" (dalla lettera di Mussolini a Hitler del 6
novembre 1941, in "Documents on German Foreign Policy"). Da questo
aiuto (non richiesto dalla Germania) i tedeschi seppero servirsi, in molti casi,
con molto cinismo, come accadde nella battaglia di Stalingrado dove, la VI
armata di Von Paulus ormai disfatta, per proteggersi la ritirata si servì degli
italiani, mandandoli contro una morte quasi certa pur di tenere il fronte e
proteggere la loro fuga.
La prima tradotta diretta in Russia
con gli Alpini della Cuneense, partì da Mondovì il 17 luglio 1942. Tanti bravi
ragazzi della nostra Provincia, nati tra il 1910 e il 1921 partirono in una
guerra, come ci spiega Nuto Revelli nel suo capolavoro "Gli Alpini del
Don", in cui "ignoravano tutto del fascismo. Nei tempi facili non
appartenevano alla "gioventù del littorio": vivevano liberi, lontani
dai grandi fatti nazionali. Non avevano nemmeno la camicia nera; a malapena
conoscevano poche frasi fatte, i miracoli di Mussolini e basta". Così
scrive anche Ernesto Ragionieri nella "Storia d'Italia Einaudi": "…dalle
raccolte di lettere dei soldati italiani caduti e dispersi, il tratto che più
colpisce, al di là dalle significative ma isolate espressioni di ribellismo,
sia esso indistinto o consapevole, è il generale e uniforme disorientamento,
l'assoluta e completa ignoranza sui motivi di quella guerra…".
Ignoravano, continua Nuto Revelli: "che la guerra contro l'Unione
Sovietica era una guerra totale. Ignoravano che l'ordine nuovo di Hitler era il
nostro programma, che tre milioni di prigionieri sovietici vennero assassinati o
fatti morire di fame e di stenti, che milioni di civili russi vennero deportati
in Germania. Ignoravano che nelle retrovie sovietiche la popolazione moriva di
fame. Ignoravano che venti milioni di russi pagarono con la vita la follia di
Hitler e di Mussolini, che sei milioni di ebrei morirono nelle camere a gas, nei
forni crematori, nei campi di sterminio nazisti". I nostri Alpini non
sapevano della "soluzione finale", non sapevano che esistevano i campi
di sterminio, non capivano cosa facessero, nelle stazioni, quelle persone con al
braccio la stella gialla di David. Con loro sparì un'intera generazione di
contadini e montanari; la divisione alpina "Cuneense" sul fronte russo
era di circa 18.000 uomini, solo in 4000 ritornarono…
LE DATE.
1941, 10 luglio. Da
Verona, a mezzanotte, parte il primo convoglio del Csir (Corpo di spedizione
italiano in Russia). Tre le divisioni: Pasubio, Torino e Celere; 2900 ufficiali,
58.000 soldati di truppa, 4600 tra cavalli e muli, 5500 automezzi e 83 aerei da
ricognizione e caccia. 5 agosto: a scaglioni, i soldati italiani arrivano
nella Moldavia romena, a nord ovest di Jassy. 11 agosto: primo scontro
con l'Armata Rossa, è la Pasubio ad avere il battesimo del fuoco. 27 agosto:
anche i reparti aerei vengono impegnati in combattimento. 22 settembre:
il Csir è totalmente impegnato nella battaglia di Petrikova. In otto giorni di
combattimento gli italiani hanno 87 morti e 190 feriti. 2 ottobre: la
Celere, la Pasubio e la Torino, attraversano il fiume Dniepr; inizia a nevicare,
le strade si trasformano in piste di fango. 11 ottobre: l'esercito
italiano è a Pavlograd. 17 ottobre: l'Armata Rossa viene attaccata dalla
cavalleria italiana con i battaglioni Savoia e Lancieri Novara. 23 ottobre:
battaglia di Gorlokowa e Rikovo; i battaglioni di cavalleria effettuano diverse
cariche. 5 novembre: contrattacco russo dopo sei giorni costringe gli
italiani alla ritirata; diverse centinaia i morti italiani. 5 dicembre:
il Csir vince la battaglia di Chazepetovka, i morti sono 135, i feriti 523, i
congelati 884 e 10 i dispersi. 25 dicembre: attacco all'alba dell'Armata
Rossa. Gli italiani ripiegano poi il 27 riconquistano le posizioni e passano al
contrattacco. La battaglia si conclude il 30 dicembre: le perdite italiane sono
di 168 morti, 715 feriti, 305 congelati e 207 dispersi.
1942, 15 febbraio.
Arrivano dall'Italia il 6° reggimento bersaglieri e il 120° artiglieria
motorizzato. Il 21 febbraio arriva anche il battaglione sciatori Monte Cervino. 4
giugno: prima azione di guerra nel Mar Nero: sommergibili e Mas attaccano
con successo unità russe, ma a metà novembre il ghiaccio costringe la
flottiglia a rientrare in Crimea; ceduti sommergibili e Mas alla marina tedesca,
gli equipaggi rientrano in patria. 9 giugno: nasce l'Armir (Armata
italiana in Russia); il generale Italo Gariboldi è il nuovo comandante
dell'Armata (in sostituzione del generale Giovanni Messe). 25 luglio:
arrivano i corpi alpini Cuneense, Julia e Tridentina. 24 agosto:
il reggimento Savoia Cavalleria carica i sovietici presso Isbuscensky, nel
bacino del Don. 19 novembre: l'inizio della fine. I russi rompono il
fronte della terza Armata Romena e della quarta Armata tedesca; per il fronte
del Don è l'inizio della fine. 10 dicembre: l'Armir è schierato da
220.000 uomini e 7000 ufficiali: sul fronte un soldato ogni sette metri. 11
dicembre: l'Armata Rossa attacca l'Armir; 16 dicembre, i russi
attaccano con carri armati; la difesa dell'Armir vacilla. 19 dicembre:
i russi con una manovra aggirante raggiungono le retrovie italiane e passano
all'attacco; inizia la ritirata italiana, le prime colonne in ritirata
sono formate dalle divisioni Ravenna, Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca.
Il
Corpo d'Armata Alpino (Cuneense, Julia e Tridentina) è ancora schierato sul
fronte del Don.
1943, 15 gennaio.
I carri armati sovietici attaccano Rossosch, sede del comando del Corpo
d'Armata Alpino. 17 gennaio: il Corpo d'Armata Alpino è
completamente accerchiato, alle ore 10 il generale Gariboldi dà l'ordine di
ripiegare (in quei giorni, la temperatura varia da -30 a -40 sotto zero). 18
gennaio: la situazione diventa tragica, colonne interminabili di uomini
ripiegano disordinatamente fino al 25 gennaio, mentre
la Cuneense e la Julia vengono sacrificate nella difesa per dar modo agli altri
Corpi di ritirarsi.
Iniziò così per migliaia di
nostri alpini una marcia disumana verso le retrovie, o come la definisce Arrigo
Petacco nel suo libro "L'Armata Scomparsa", la "marcia del Davai".
Davai! (camminare!) urlavano i soldati russi ai nostri alpini e, ai ritardatari
raffiche di mitra. Dopo settimane di marcia sulle strade ghiacciate e nella neve
vergine, cadendo e rialzandosi con i piedi avvolti in stracci e con il viso
spaccato dal freddo, arrivavano alle stazioni ferroviarie, dove su ogni vagone
stipavano cento alpini. Arrigo Petacco così descrive nel suo libro le
testimonianze raccolte: "…i carri più attrezzati disponevano di due
tavolacci a mezza altezza per aumentarne la capienza dividendo i prigionieri in
due strati. Dove già non esisteva, qualcuno provvide a realizzare una latrina
praticando un foro a colpi d'accetta che tuttavia non tardò ad essere otturata
da mucchi di escrementi e di urina gelata. I decessi erano numerosi e continui.
Ogni mattina, quando la guardia apriva il portellone, la sua abituale domanda
era: Skol'ko kaputt?, quanti morti stamane? I cadaveri, ritti ancora in piedi
sorretti dalla ressa, venivano raccolti in un vagone di coda per essere poi
sepolti lungo la scarpata ferroviaria o addirittura gettati dal treno durante il
viaggio. L'eccezionale mortalità allargò gli spazi dei sopravissuti…".
La maggior parte che sopravvissero a questi lunghi viaggi, morirono poi nei
campi di prigionia, dal freddo, dalle malattie e dalla fame. La guerra poi finì,
specialmente nelle grandi città, dal mattino alla sera migliaia di donne e
genitori attendevano i treni del ritorno; migliaia di mani alzate con le
fotografie del marito, del fratello, del figlio. In molti giornali, accanto ai
ritratti dei dispersi, l'annuncio…"se qualcuno riconosce questo volto
è pregato di rivolgersi alla famiglia…". Sulle nostre montagne e
colline, mogli e genitori, in continua attesa a scrutare il sentiero di casa, ad
aspettare, sperare, non rassegnarsi…Sulla collina di Verzuolo, un papà di
nome Francesco, cinque figlie e due maschi: "Eduardu e Notu", entrambi
partiti per la Russia: senza di loro come poteva continuare i lavori in
campagna? Chi avrebbe accudito al bestiame? Tutti i giorni papà Francesco
rimaneva ore e ore a guardar la strada, aspettando i suoi amati figli…che non
sarebbero mai più ritornati. Papà Francesco morì di dolore. In provincia di
Cuneo vi furono migliaia di "papà Francesco"…
Per i pochi fortunati che riuscirono a ritornare a casa, la Campagna di Russia
li trasformò per sempre, come ebbe modo di dire in un'intervista a Nuto Revelli,
l'alpino Castellino Giuseppe, classe 1916, appartenente alla Nona Compagnia del
Battaglione Mondovì: "…seguono giorni e giorni di confusione. Arriva
gente da ogni parte, il cortile sembra un deposito di bicilette. Tutti vogliono
sapere, ma dopo mezz'ora che parlo mi mancano le forze. Mi chiedono <come
stavate là?>, e rispondo solo <guardatemi>. Le notti sono lunghe, non
dormo mai. La sera dell'8 sul 9, la vigilia della festa della Madonna, mio padre
mi annuncia un pranzo speciale per l'indomani, peperonata e polenta. Vado a
raccogliere i peperoni nell'orto, ne mangio tanti, crudi come li raccolgo. Così
presto la pancia si gonfia come un pallone, proprio come avveniva nei campi di
Russia. Quando arriva mia madre sono più morto che vivo. Ma poi tutto passa.
Sto fermo giorni e giorni, a guardare gli altri che lavorano. Cresco un chilo al
giorno. Dopo un mese non vedo più le punte delle scarpe. Ma sono senza forze.
Infine mi sgonfio. (…) La guerra. Vado al ponte della Stura, che è alto,
piuttosto di rivivere la mia guerra. Se mia moglie compra un figlio gli tiro il
collo piuttosto che debba vivere come me. Abbiamo un <governo>, una società
ingiusta. Non posso lavorare, sono più morto che vivo. Ho una croce di guerra
che non serve a niente. Sono invalido al lavoro per due anni. Ma nessuna
pensione di guerra. Dei tedeschi non voglio sentir parlare, hanno poco da fare
con me. I nostri che vogliono il comunismo vorrei portarli in Russia a mangiare
un po' del pane della <norma>, là gli insegnano. Siamo mal ridotti noi
pochi della Russia. Tbc oppure cronici. Chi è un po' sano ha un altro debole,
è alcolizzato. Sto in piedi a forza di iniezioni. Nefrire cronica, rene grinzo,
malaria, batticuore che ogni notte mi fa scappare e la moglie che grida:
"Ma cos'eti, ma cos'eti", e mi sento morire. Ecco cos'è la
guerra".
riccardo.baldi@libero.it