GRUPPO PIEVE DI SOLIGO


Dicembre 1987

10° Rassegna di Canto Corale

Non ci sono dubbi, la 10° Rassegna di Canto Corale organizzata dal gruppo alpini, in collaborazione quest’anno con il CAI, che ha celebrato il 25° della sua fondazione, ha ottenuto grande successo.
Hanno partecipato tre affermati cori: il Corocastel di Conegliano diretto da Toni Battistella, nato nel 1966 e che ha fatto gli onori di casa, in quanto è stato presente a quasi tutte le rassegne; il Coro Vis Beil di Visome (BL) diretto da Paolo Bittante di recente costituzione, infatti ha debuttato a Belluno alla fine del 1984; il Coro Stella Alpina di Rho (MI) diretto da Gianni Borghetti, complesso possente, che negli ultimi anni si è maggiormente migliorato, nato nel 1965.
La cronaca è quasi superflua o direbbe poco — bisogna esser presenti —, e quindi dobbiamo solo fare i nostri elogi al capogruppo Paolo Gai e ai suoi collaboratori per la stupenda serata trascorsa nella serenità e nell’allegria, con “canti di tanta gioia”.
Non vogliamo tralasciare di riportare quanto e stato scritto nella presentazione del programma, del gruppo alpini. Sono parole che abbiamo avuto modo di scrivere in altre occasioni, ma che rinnovano in noi sentimenti di bontà e di amore verso il creato e le creature:
Il miracolo della primavera ogni anno ci affascina con le meraviglie della Natura che rinasce attraverso i suoi fiori, il suo verde, il suo incanto che ti ristorano solo se ti fermi un po’ a contemplarli, ad ammirarli...
Ma ciò che accomuna sia gli Alpini sia il CAl sono le meraviglie delle vette alpine, la purezza dell’aria, lo splendore dei paesaggi, la gioia del panorama dopo la fatica della salita., ma soprattutto gli insegnamenti che ci vengono dai monti e ci portano a gioire della vita se la possiamo valorizzare: l’amore, i figli, gli affetti più cari, gli ideali più genuini, la fraternità più semplice, la giustizia, l’altruismo, il vivere per gli altri non per il denaro per le cose che passano...
Tutto questo ci viene tramanda io attraverso il canto dei cori, con le loro melodie ed i loro puri e genuini ideali di vita.
Il Gruppo Alpini di Pieve di Soligo, quest’anno, oltre alla solita presentazione, vorrebbe sottoporre a tutti quelli che volessero ..guadagnare.. due minuti di tempo, un famoso passo di Giulio Bedeschi tratto da Centomila gavette di ghiaccio... Si parla degli alpini, ma soprattutto di tutti i militari, che mai forse come in questi momenti hanno bisogno di pensare e di riflettere.
Anche tutti noi abbiamo bisogno, in questa nostra epoca, di fermarci un po’ a pensare, a riflettere su quanto ci è stato tramandato at traverso i canti e le memorie degli Alpini.
Seguendo la direzione indicata dalla freccia, s'incamminò verso gli uomini della leggenda. Erano sol dati al pari di ogni altro, gli alpini della julia..; solamente, come tutti gli alpini, portavano uno strano cappello di feltro a larga tesa, all’in dietro sollevata e in avanti ricadente, ornato di una penna nera appiccicata a punta in su sul lato sinistro del cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la prescrisse, la penna doveva essere d’aquila; ma in effetto gli alpini, ignari d’ogni retorica, collocavano sopra l’ala penne di corvo, di gallina, di tacchino e di qualunque altro pennuto in cui il buon Dio facesse imbattere lungo le vie della guerra, nere o d’altro colore purché fossero penne lunghe e diritte e stessero a indicare da lontano che s’avanzava un alpino.
In pratica, la penna sul cappello resisteva rigida e lustra per poco tempo, ben presto si riduceva a un mozzicone malconcio: e qui cominciavano tutti i guai degli alpini che facevano la guerra;perchè, a osservarli da vicino, si capiva subito che in pace e in guerra gli alpini potevano distaccarsi da tutto meno che dal loro cappello sbilenco e stravolto che fosse; anzi!
E un tutt’uno con l’uomo, il cappello; tanto che finite le guerre e deposto il grigioverde, il cappello resta al posto d’onore nelle baite alpestri come nelle case di città, distaccato dal chiodo o levato dal cassetto con mano gelosa nelle circostanze speciali, ad esempio per ritrovarsi tra alpini o per imporlo con ben mascherata commozione sul capo del figlioletto o addirittura dell’ultimo nipote, per vedere quanto gli mancherà da crescere e se sarà un bell’alpino: bello poi, a questo punto, significa somigliante al padre o al nonno, che è il padrone del cappello.
C’è una ragione, naturalmente, per tutto ciò; ce ne sono molte. La prima è che dal momento in cui il magazziniere lo sbatte in testa al bocia. giunto dalla sua valle alla caserma, il cappello fa la vita dell’alpino; sembra una cosa da niente, a dirlo, ma mettetevi in coda a un mulo e andate in giro a fare la guerra, e poi saprete. Vi succede allora di vedere che col sole, sia anche quello del centro d’Africa, l’alpino non conosce caschi di sughero o altri arnesi del genere, ma tiene in testa il suo bravo cappello di feltro bollente, rivoltandolo tutt’al più all’indietro affinché l’ala ripari la nuca, e l’ampia tesa dinanzi agli occhi non dia l’impressione di soffocare; e con la pioggia serve da ombrello e da grondaia; con la neve, da tetto unico e solo per l’alpino che va sui monti.
Posto in bilico fra naso e fronte quando l’alpino è sdraiato a dormire al sole e all’aria ed ha per letto le pietre o il fango, con la piccola striscia d’ombra che fa schermo sugli occhi è quanto resta dei ricordi di casa, è il cubicolo minimo che protegge soltanto le pupille, ma col raccolto tepore fa chiudere le palpebre sul sogno del morbido letto lontano, della stanza riparata e delle imposte serrate a far più fondo il sonno. E se l’alpino ha sete, una sapiente manata sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per attingere acqua quando c’è ressa attorno al pozzo o si balza un istante fuori dei ranghi, durante le marce, verso il vicino ruscello; eccellente perfino a raccogliere, dicano quel che vogliono il capitano e il medico, la pasta asciutta e addirittura la minestra in brodo — non si scandalizzi nessuno, succede, succede! — nei casi in cui l’ultima latta finisce i suoi servigi sotto una raffica di mitraglia. E tanto amico e compagno, il cappello, che gli si farebbe un torto a sostituirlo con l’elmetto, in trincea; nessuno dice che il feltro ripari dalle pallottole più che l’acciaio, siamo d’accordo, ma è proprio bello averlo in testa a quattro salti dai nemici ci si sente più alpini, e pare che il fischio rabbioso debba passare sempre due dita più in là, per non bucarlo; è così che dall’altra parte il nemico vede spuntare dalla trincea quel cappello curioso e quella penna mal ridotta, che a vederla riaffiorare sempre da capo per quanto si spari e si tempesti, sembra venga fare il solletico sotto il mento, e viene voglia di scaraventarle addosso l’inferno a farla finita una buona volta, ma fa anche pensare: accidenti, non mollano proprio mai questi maledetti alpini!
E tutto così, insomma; di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma di alpini e di cappelli come i loro ce n’è una specie sola, che nasce e resta unica in torno ai monti d’Italia. Ci vuole pazienza, bisogna prenderli come sono, come il buon Dio li ha voluti, l’uno e l’altro; e se a volte sembra che tutti e due si diano un po' troppe arie per via di quella penna, bisogna concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa usare perfino da paniere per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di terra, come se fosse la sporta della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un mucchio di bende e non calza più perchè la testa del padrone, sotto, s’è mezza sfasciata per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della vita, e a calcarselo di nuovo un p0’ di tra verso fra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli anni calano che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo in testa, vuoi dire che l’alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c’è dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro, in gamba, con un fegato sano e un cuore così.’ sta a dire che morto il padrone, vorrebbe andargli dietro ma invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non riesce neppure lui a ridestare l’alpino di steso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino alla fanfara del giudizio universale non lo risveglia e lo scuote più nessuno: c’è un alpino di meno sulla terra.
A non voler contare il figlio che, polpacciuto e tracagnotto, brontolone e testardo com’è, vien su tal quale il suo buon padre buonanima; e già al passo si vede che sta crescendo giorno per giorno penna nera senza fallo.
Come alloro tempi erano suo padre e suo nonno e tutti i maschi di casa, in fin dei conti,’ tutti alpini spaccati, figli della montagna dura e selvosa che dà la vita e la toglie a suo piacimento, o la regala al piano per germinarne altra; inesauribile, essa che è pietra e vento, impasta quindi i suoi uomini di durezza e di sogno. Nascono e crescono così dal suo grembo, come gli abeti, le ‘penne nere»; che per la loro terra nell’intero mondo sono poi gli alpini; gli alpini d’Italia”.
NATORE