ADUNATE NAZIONALI
TRIESTE 2004

TRIESTE, 2004

 


Piazza Unità d'Italia

L'on. Fini appunta la med. d'argento al valor civile sul labaro, 
concessa all'ospedale da campo ANA

Sfila il Labaro Nazionale

Sfila Conegliano

SUCCEDE UNA VOLTA L'ANNO...
OVVERO QUANDO GLI ALPINI NON BADANO A SPESE

Suoni e colori dell'adunata di Trieste. L'invasione del grande esercito di pace
Furto con scuse al gruppo San Fior.
Le performance di Parazzini e Giovanardi all'ostaria "la vecchia"


IL CAPPELLO.
Gli altri si chiamano incontri, meeting, pellegrinaggi. La nostra è semplicemente l’ “adunata”. Non lo sanno quelli del “CIS Viaggiare Informati” che, segnalando le difficoltà del traffico sulle arterie che portano a Trieste, parlano del “raduno” degli alpini. Ma se non ci fosse il CIS quanti, fra gli italiani, saprebbero dell’esistenza del “raduno” delle penne nere?

Si compie una volta all’anno, è attesa per un anno, ognuna è diversa dalle precedenti. Questa è la 77ma e si svolge a Trieste per ricordare i 50 anni del passaggio della città all’Italia.
Come ogni anno, il fiume di alpini muove i primi rivoli all’inizio della settimana, poi si ingrossa sempre più, comincia col causare qualche problema al traffico, finisce per paralizzarlo.
Si raggiunge la città con qualsiasi mezzo: bus, treni, vetture, camion, camper, il furgone del lavoro. I protagonisti dell’esodo sono riconoscibilissimi. Intanto vanno alla loro festa e non indossano gli abiti della festa, poi fanno un po’ di chiasso, perché tanti hanno installato, sul tetto del mezzo, rumorosi altoparlanti da dove vengono diffusi brani del repertorio alpino e non (Romagna mia la più gettonata). Poi, grande o piccolo, dipinto o sagomato, in testa o sul cruscotto della macchina, il simbolo senza il quale non ci sarebbero né adunata degli alpini né alpini.

L’ENIGMA. Questa è la sesta adunata nella città giuliana. Le ragioni per questa scelta sono state solo storiche o patriottiche, legate alle travagliate vicende di questa città, od anche affettive? Come ci accoglierà la gente di Trieste?
Faccio fatica a darmi una risposta perché non riesco a cogliere la presenza di triestini. Vedo solo alpini, cinesi, magrebini ed africani. Ma mi conforta quanto afferma sul tram una signora di mezza età, triestina spaccata, che abbraccia un bocia: “Grazie alpini di aver portato l’allegria a Trieste”. Si sa che è difficile portare l’allegria dove già c’è, si sa anche che Trieste è la città più “vecchia” d’Italia e che l’impoverimento demografico è appena attenuato dalla presenza dell’università. Logico pensare che l’impatto provocato dall’arrivo delle penne nere deve essere stato dirompente.

IL FURTO. Per capire quanto sia stata calorosa l’accoglienza dei triestini, basta ricordare quanto accaduto ad un gruppo della nostra sezione. Con il beneplacito del sindaco di Trieste, le penne nere di San Fior (è nota la loro capacità di intrallazzare ad ogni livello) avevano allestito il loro accampamento nel bel mezzo di Via 20 Settembre, che, per chi non lo sapesse, è una delle vie più frequentate della città, dal momento che su essa si affacciano negozi e ristoranti esclusivi. Già da mercoledì sera (è nota anche la smisurata capacità di coinvolgimento di Mirko Da Rui, Giovanni Pellegrinet & C.) residenti e passanti non potevano restare indifferenti alla presenza delle penne nere sanfioresi. Ed era festa, e tavola, comune. Ma, nel corso della notte, mani ignote forzavano la tenda in un punto ben preciso, alleggerendo la dispensa. Informati del fatto, il giorno dopo con una generosa colletta i commercianti della via provvedevano a rimediare al brutto episodio con forniture di ogni genere. Il tutto accompagnato da una lettera di scuse.

SABATO 1. La città è degli alpini, padroni incontrastati. Saltano tutte le regole del traffico e nell’alternarsi del verde, arancione e rosso dei semafori agli incroci, c’è del comico e del patetico. I vigili ci sono, ma nei loro volti leggo quel tipo di smarrimento che può generare solo l’impotenza. Osservano, perdonano, devono far finta di nulla e finiscono spesso per essere inghiottiti nella baraonda. Ogni pietra del molo è stata trasformata in accampamento. Non si contano le tavolate con annessa cucina, cantina e dispensa, soluzioni originalissime frutto di un intraprendente e fantasioso spirito organizzativo.
Si tratta di una festa unica, fra i bivacchi che ti risucchiano, osterie dove l’attività di mescita è frenetica e che oggi sono regno delle penne nere. Clacson, brindisi, canti, musiche, damigiane sui camper e bottiglie sui tavoli, la maggior parte vuote.
Non si contano i chioschi e le bancarelle di ogni genere, in un turbinio di cori, fanfare improvvisate, brindisi continui, mani che si tendono per offrirti il bicchiere; alpini che si incontrano e fraternizzano come se si conoscessero da una vita.
Oggi Trieste è una città occupata da coloro che portano la penna e non si discute.

TRENTATRE’. In una città che ha preso forma d’alpino, le note del “Trentatré” sono la colonna sonora di tutta la festa: ripetute in maniera quasi ossessiva, si rincorrono di strada in strada, di piazza in piazza, di fanfara in fanfara, suonate con tutti gli strumenti, compresi vibrafoni, labiofoni, armoniche, fisarmoniche, lente, marziali, martellanti ma anche struggenti ed a volte strappalacrime (a tutto può resistere un alpino, ma non a quelle). “Trentatré” sembra oggi l’unico numero certo in questa grande festa popolare, tutti gli altri numeri possono solo essere immaginati per difetto.

“LA VECCHIA”.Inutile dire che la più frequentata è l’ostaria “la vecchia” posta sotto una tenda sul molo centrale e gestita da alcuni soci della nostra sezione, ritrovo per tradizione cosmopolita, vista la presenza di alpini di ogni parte della penisola. Ospiti di riguardo, come Parazzini e il ministro Giovanardi, protagonisti nell’animare la festa e poi invitati nella degustazione dello spiedo pazientemente cucinato dal gestore dell’esercizio, per la cui cottura sono state anche occupate, abusivamente, due capienti cabine telefoniche. Fanno da contorno le tradizionali spumiglie tricolori, accompagnate dai più svariati tipi di vini, portati dagli ospiti, che poco (o nulla) hanno da invidiare al tanto (troppo) decantato verdiso dei Colli di Ogliano.


SABATO 2.Questa è una notte difficile, è la notte che divide gli alpini tra quelli per cui la adunata è sacra e quelli che la ritengono un contenitore che si può riempire di tutto. I mezzi che imperversano per la città sono frutto di una ingegnosità non comune, di tecnica e grande perizia artigianale. Qualche volta, poche volte, anche di fantasia aberrante. C’è la miglior goliardia alpina, ma si può assistere anche ad esibizioni stonate che violano il buon gusto ed il comune senso del bello. Diciamocelo: è un problema cui, prima o dopo, qualcuno dovrà mettere mano, anche se per molti questa è una battaglia già perduta. Un amico incontrato alla stazione, cui rimprovero di non indossare il cappello, mi dice che se ne vergogna, mostrandomi due ragazzi disfatti che giacciono sul marciapiede. La cosa mi sembra eccessiva ma se ti guardi intorno gli eccessi non mancano. Non ho una risposta da dargli, è questo il momento più brutto della mia adunata.

Il binomio alpini-vino è sempre stato sdegnosamente rifiutato dalle penne nere, che hanno sempre reagito con grande insofferenza ai tentativi di trattare la loro immagine con ignobili e superficiali semplificazioni.
Ma, questa notte, prendere le difese degli alpini risulterebbe operazione difficile per chiunque.
Le sirene delle ambulanze sono troppe e sempre più frequenti e nel piccolo ospedale da campo, allestito nei pressi del porto vecchio, il lavoro non manca.

SENZA BADARE A SPESE. Improvvisamente tutto si ferma, perché lo spettacolo è di quelli che non si possono perdere.
Fantasmagoriche sequenze pirotecniche svelano la vastità del golfo e improvvisi flash di luce intensa e di bagliori intermittenti ravvivano le splendide facciate dei palazzi di piazza Unità d’Italia, mentre i terrificanti boati che li seguono si spengono nelle profondità del mare.
Botti sempre più fragorosi sembrano annunciare che lo spettacolo è terminato, ma la sequenza riprende poi con altri giochi di luci, in un crescendo di effetti mossi da una regia che sembra voler meravigliare e dimostrarci che, almeno una volta l’anno, gli alpini non badano a spese.

SOLO UNA VOLTA L’ANNO. E’ impressionante il silenzio che avvolge la città alle sette del mattino di domenica. Solo tre, quattro ore fa era una bolgia infernale, ora una quiete quasi irreale è rotta appena da qualche tromba che vorrebbe dare un’improbabile sveglia.
Sono impressionato dalla larghezza di Corso Cavour e Riva 3 Novembre, ora deserte: stanotte qui non si passava, uno andava dove lo portava la folla, tra fumi di vecchi trattori e strombazzar di claxon e trombe. Le pietre di piazza Unità d’Italia sono pulitissime, quasi tirate a lucido. Tutto è rimesso in ordine. Spariti i segni della festa, ora il popolo degli alpini si riassetta e si prepara per la parte più importante della manifestazione, ed un fiume di penne nere si avvia verso viale Carducci, o in zona ammassamento.
Oggi la parte sacra viene dopo quella profana: di solito, in tutte le loro manifestazioni succede il contrario. Valli a capire gli alpini… Ma succede solo all’adunata, una volta l’anno.

UNA LISTA LUNGA PIU’ DELLA SFILATA. E’ un fiume tra due immense sponde umane, il calore e la commozione sono quelli di tutte le adunate.
Sfila per ore e ore un esercito imponente di veci e bocia, un grande pacifico esercito. Tenaci combattenti anche contro le avversità della vita, tanti alpini sfilano in carrozzina.
Sfilano anche i muli, che nessuno riesce più a fermarli.

Lo speaker di turno, assieme alla storia della sezione che passa tra due ali di folla, ricorda gli interventi di cui le penne nere ad essa appartenenti sono stati protagonisti.
E’ questo il momento più toccante dell’adunata. Perché sono sequenze interminabili, elenchi di luoghi che spesso sono oltre i confini delle comunità in cui la sezione opera, località sconosciute o tristemente note che ci ricordano le catastrofi nostre ed altrui, nomi che evocano tragedie, fame e povertà, luoghi dove gli alpini sono stati con i segni della pace a portare il loro aiuto. Nomi di luoghi lontani, al di là del nostro continente, spesso oltre il mare ed i deserti: a dirci che gli alpini non li ferma né il mare né il deserto.
Impressionante sequenza di opere, interventi: e, ad elencarli tutti, non basterebbero le ore della sfilata.

E’ quindi il momento degli alpini di Conegliano: una colonna interminabile. A ricordarne la storia e l’impegno, dalla torre del mercato coperto a fianco della tribuna d’onore, altri non poteva essere se non il nostro Nicola Stefani. Nella sua voce l’orgoglio di poter raccontare che anche i numeri della nostra piccola sezione sono grandi numeri.

IL BORIN. Il sole, quello che da tempo ignoravamo, compare improvviso, dopo una vivace battaglia con le nuvole, ad illuminare la sfilata. Poi, inaspettato ed improvviso, un vento fortissimo solleva nuvole di polvere, carte, teli, sacchi di plastica, costringendo qualche alpino in un fuori programma di rincorsa al cappello che gli è partito. Sembra che il tempo si guasti di brutto, ma un triestino ci rassicura che non succederà nulla: è il borin, il vento che arriva dal canale di Fiume (Istria) del tutto innocuo. Altro sarebbero state la bora bianca o la bora nera...
Rassicurato sull’evolversi della situazione meteorologica, decido di non perdermi le scritte degli striscioni: particolarmente ricche di significati umani e morali, sono la forma scelta dagli alpini per dialogare con la gente. Le parole sono poche e quindi pesate e dense di significato. I temi di quest’anno sono l’allargamento dell’Europa, il ricordo del ritorno di Trieste all’Italia ed il saluto a Beppe Parazzini, che lascia, dopo sei anni di appassionato impegno, la guida dell’associazione.
La scritta più corta l’ho ancora nella memoria, è quella della sezione Colico: LA PENNA CHE SA SCRIVERE PACE.

dlmgfr


FAR GRUPPO

Son dovuto stare due giorni a Trieste con il Gruppo di Collalto a cui sono iscritto per capire veramente e cogliere il valore reale di quel ritornello che il mio capogruppo Valerio Collet ripete sempre: "...l'importante l'é che stene unìdi!".
Non è facile neanche per un Gruppo di Alpini stare uniti, veramente uniti; ma ho motivo di ritenere che sarà proprio l'unità dei nostri Gruppi, piccoli e grandi, il futuro dell'Associazione Nazionale. Se il dibattito sull'allargamento del sodalizio ad amici e simpatizzanti è stringente e non rinviabile, è solo  l'unità del Gruppo che può garantire la sopravvivenza e il perpetuarsi dello spirito alpino (il cemento, la filosofia...), dando così una concreta speranza a tutta l'Associazione.
Mi chiedo infatti che cosa e quali valori riusciranno a mettere assieme delle persone e quale sarà il collante dentro i Gruppi del futuro, quando i giovani che avranno portato il cappello alpino si andranno a cercare col lumicino?
Par di capire che soltanto prove di forza come la maestosa adunata di Trieste possano frenare la malcelata volontà politica di ridimensionare il Corpo, di tagliarne i rami ancora verdi e forti, di garantire un futuro certo alle truppe alpine.
Se viene meno la nostra forza saremo sopraffatti dalla burocrazia. E allora bisogna far Gruppo, cominciare a dibattere al nostro interno su come si può evolvere l'Associazione nel futuro prossimo.
A Colfosco, lo scorso 2 maggio in occasione dell'inaugurazione della sede, il consigliere nazionale Ivano Gentili lo ha chiesto a tutti con chiarezza assoluta: "è giusto aprire le porte ai simpatizzanti? E in che modo? Ci attendiamo una risposta che potrà esserci utile per una decisione consapevole e serena".
Credo che tutti i Gruppi risponderanno a questo appello e Fiamme Verdi si farà portavoce presso il Consiglio Nazionale oltre che darne conto su queste colonne, ma credo che dire semplicemente come la pensiamo sia davvero un po' poco se abbiamo davvero a cuore il futuro dell'A.N.A.
Bisogna stare uniti e far Gruppo.
Il "mio" Gruppo è tornato da Trieste sicuramente ancora più forte e carico di entusiasmo di quando ero partito.
A rafforzarlo è stato un unico campo con tende e cucina come punto di riferimento anche per chi non ha utilizzato la corriera del Gruppo per raggiungere il capoluogo giuliano. Sono stati i canti dei veci e le canzoni dei boce, le foto tutti insieme, il rancio (ottimo) condiviso in sana allegria, le battute scherzose, le cartoline dell'adunata cariche di firme mandate ai soci impossibilitati ad esserci per malattia, i lunghi e commoventi attimi di raccoglimento per ricordare i soci rimasti a Collalto a riposare per sempre.
E' stata la presenza della madrina e una sfilata partecipata.
E' stato quel tricolore di una tosa firmato da tutti e l'aver appreso al telefono che alla messa domenicale il prete del paese ha raccomandato: "pregate per i nostri Alpini impegnati all'adunata nazionale".
La mia impressione è che ancor prima di allargare (giustamente) ancor di più i confini dei Gruppi ad amici e simpatizzanti, si continui a lavorare sodo al nostro interno per crescere come Gruppi locali e come Associazione Nazionale degli Alpini.

Antonio Menegon